Curioso come il destino di una canzone dipenda dall’utilizzo dei media. In questo caso, un brano che è stato usato un’infinità di volte in programmi e serie tv, oltre che in spot pubblicitari, ha regalato successo mondiale a un artista che altrettanto successo, con l’album di cui faceva parte il pezzo, aveva raggiunto nel suo paese d’origine per le restanti tracce.

Con tutte tranne quella infatti, era diventato l’idolo di un popolo che lottava per l’indipendenza culturale dalla potenza americana, affrancandosi, o almeno cercando di farlo, da quell’immagine plastica e patinata che hanno sempre avuto le Hawaii.

La canzone è una versione di altre due, ossia Somewhere Over the Rainbow di Judy Garland, dal film del 1939 Il Mago di Oz, combinata con What a Wonderful World di Louis Armstrong e lui era Israel Kamakawiwo’ole nato il 20 maggio del 1959.

Giovane dalla vita altalenante, cominciata tra le difficoltà e finita troppo in fretta a soli trentotto anni per via dei suoi problemi fisici dovuti alla sua enorme stazza, riuscì a regalare a sé e alla sua famiglia un periodo di serenità economica dopo il ’93, anno in cui l’album Facing Future ebbe il successo di cui parlo. Tutti i suoi dischi hanno avuto poi, dopo la sua morte, enorme diffusione in seguito all’esplosione ovunque di quell’unico brano che lo ha traghettato nel mondo intero.

Così finalmente si è conosciuta una musica genuinamente hawaiana, di cui gli hawaiani sono molto orgogliosi, diversa da quella che prima era stata spacciata come tale, soprattutto negli Stati uniti e poi da lì in Europa, ossia quel mix contaminato di sonorità native con testi in inglese, come ad esempio agli inizi degli anni sessanta, nella sdolcinata e romantica trilogia dei film di Elvis Presley ambientati alle Hawaii.

Le trame di queste pellicole erano semplici e simili tra loro, con l’interprete principale che rivestiva il ruolo dell’eroe canterino, accompagnato da una graziosa fidanzatina, circondato da una serie di fanciulle bellone, non senza qualche rissa, il tutto in mezzo a magnifici scenari esotici in grado di solleticare la voglia di evasione verso quelle terre. In effetti sin da quando le Hawaii erano sotto il controllo statunitense, il governo federale si era sempre adoperato per promuovere il turismo verso le Isole.

Nella bibbia musicale che è Mondo Exotica di Francesco Adinolfi leggo che durante l’Esposizione internazionale organizzata a San Francisco nel 1915 si esibirono ininterrottamente i migliori musicisti e danzatori hawaiani. Così per la prima volta migliaia di americani ascoltarono quotidianamente il suono del Pacifico, tanto che nel 1916 la Rca Victor vendette più dischi di musica hawaiana di qualsiasi altro genere e quasi tutte le chitarre acquistate in quel periodo privilegiarono accessori in grado di renderle più hawaiane.

La storia ci dice poi che nel 1959, anno di nascita di Israel, il Congresso degli Stati Uniti d’America accettò le Hawaii come 50º stato federato dell’Unione. E proprio tra gli anni cinquanta e sessanta si diffuse il genere musicale definito “Exotica”, che, mescolando echi jazz a evocazioni sonore e strumentali di paesi lontani, miste alla riproduzione di versi di animali esotici, portava l’ascoltatore in viaggio verso paradisi lussureggianti su cui fantasticare, al sicuro nel proprio salotto, con un drink in mano.

Tra gli iniziatori Martin Denny e l’hawaiano Arthur Lyman che a lui si sostituì e che in dischi come Hawaiian Sunset del 1959 evocò distese di sabbia e splendidi tramonti sull’oceano Pacifico hawaiano. Ancora lo stesso Lyman musicò la serie televisiva Hawaiian eye anticipatrice di Hawaii Squadra Cinque Zero, il poliziesco più lungo nella storia della TV statunitense (12 stagioni). Materiali di quel set e riferimenti di quella serie furono poi riutilizzati per un altro famosissimo telefilm ambientato sempre alle Hawaii,Magnum, P.I.

Infinito dunque il debito artistico al folklore locale e all’immaginario suggerito da questo paradiso reale, condito da sorrisi, collane di fiori e dal classico ukulele che tanto è di moda anche oggi. Questo strumento, una sorta di piccola chitarra, adattamento hawaiano di un altro di origine portoghese, è l’unica base musicale che accompagna la voce di Israel.

Della sua Somewhere Over the Rainbow, frutto di chissà quale estro del momento, registrata in una notte e tenuta in un cassetto per cinque anni, tecnicamente imperfetta in qualche accordo e qualche parola sbagliata, sono bastati alcuni vocalizzi per consegnare per sempre ai posteri il gigante buono delle isole Hawaii: Israel Kamakawiwo’ole, per scrivere il nome del quale sono costretta a ricorrere al copia e incolla e per nominarlo, mi arrendo a uno dei suoi più brevi e semplici pseudonimi con cui era conosciuto, Iz.

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