Il coronavirus non si poteva prevedere, e in particolare non si poteva prevedere che colpisse l’Italia così duramente, e prima degli altri Paesi fuori dalla Cina, per cui abbiamo potuto imparar poco. Ma gli shock internazionali di cui hanno parlato gli economisti negli ultimi 10 anni, e in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008, si potevano (anzi, si dovevano) prevedere. Guerre, terrorismo, nuove crisi finanziarie, cambiamento climatico, migrazioni di massa. Questo è certo peggio.

Occorreva avere margini sui nostri conti, anche a prezzo di alcuni sacrifici, per non dover presentarci all’Europa con il cappello in mano. L’Europa poi può fungere solo come nostro garante, mentre il problema è la credibilità della nostra capacità di restituire il debito, cioè la fiducia dei famigerati “mercati” (e questi creditori tra l’altro per due terzi sono italiani, cioè sono i nostri risparmiatori, grandi ma anche piccoli).

Poi c’è la solita obiezione dei turbokeynesiani, presenti sia a sinistra ma soprattutto tra i sovranisti: per ridurre il debito occorreva che lo Stato spendesse di più. Esiste un effetto moltiplicatore della spesa, ma in una economia aperta questo è incerto, e se non funziona (se per esempio investiamo male, in opere di dubbia utilità e senza ritorni finanziari). Si veda la crescita della spesa pubblica nel ventennio tra il 1975 e il 1995, e il parallelo rallentamento della crescita del Pil italiano (cfr. F.Silva, A.Ninni Un miracolo non basta, Laterza 2019): dove è finito l’effetto moltiplicatore?

Se il moltiplicatore non funziona, il costo del debito esplode. E il risultato sembra troppo drammatico per rischiare: il Paese va in default, e deve uscire dall’Euro (che è quello che molti sovranisti in realtà auspicano, anche se di recente non osavano più dirlo). Le cose da fare con ragionevole certezza e gradualità erano poche (un sentiero stretto), e non di dimensioni eccessive, perché la situazione era più di stasi che di crisi, e in questa situazione anche tagli bruschi possono avere effetti depressivi.

Probabilmente le minime cose da fare invece per rimettere gradatamente a posto i conti sarebbero state una molto più dura lotta all’evasione/elusione (si pensi solo all’uso del contante, e all’esenzione fiscale delle prime case, due scandali), e alla riduzione degli sprechi, con le spending review prima fatte fallire, e alla fine addirittura abolite definitivamente, o sostituiti da assurdi tagli lineari ai servizi. Anche “Quota cento” rientra tra i generosi sprechi, come parte dei 13 miliardi annui di trasferimenti a vario titolo alle ferrovie.

E in questo momento drammatico anche la teoria economica dice che occorre spendere in deficit, e spendere molto, e spendere rapidamente, per sostenere la domanda interna, ma anche per ragioni strettamente sociali: le due indicazioni, tecniche e umane, convergono. Il governo si muove in questa direzione con decisione, ma recentemente anche con dichiarazioni dementi: annuncia un mega programma di investimenti pubblici in infrastrutture senza gare, mentre oggi occorre assolutamente sostenere la domanda interna (gli investimenti infrastrutturali per definizione hanno impatti differiti nel tempo, e occupano poca gente per € speso, ma il “partito del cemento” non dorme mai). Bisogna fare il contrario, al limite anche con trasferimenti di denaro diretti alle famiglie, con un radicale potenziamento del reddito di cittadinanza o in altre forme (quelle che sono note come helicopter money).

Passata la tempesta sanitaria ed economica, quale sia il tempo necessario, tutti si troveranno più indebitati (noi più degli altri), e saranno probabilmente necessarie vaste operazioni di taglio generalizzato e concordato dei debiti (hircut), o un sostanziale rilancio dell’inflazione, o, all’interno, una modesta tassa patrimoniale o sulle eredità. Difficile adesso costruire scenari e ricette. E quella da molti invocata “più Stato e meno mercato” lascia perplessi per semplicismo: più Stato con un Salvini o un Berlusconi?

Ma sembra davvero che una lezione debba essere imparata: basta avventurismi sui conti pubblici, una ragionevole dose di prudenza sarà irrinunciabile, anche a costo di perdere un po’ di consenso. A meno che… a meno che questa tempesta, paragonata giustamente da Macron a una guerra, non faccia prevalere l’isolazionismo sovranista, esattamente come accadde dopo la prima guerra mondiale. E sappiamo tutti le conseguenze di quella involuzione, che non solo non creò ricchezza per nessuno, ma aprì la strada ad una guerra successiva.

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