Se nelle ultime ore l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un appello chiaro sull’uso delle mascherine, che vanno ovviamente garantite in via prioritaria a chi lavora in prima linea, è anche vero che sono uno strumento utile per chi tuttora è costretto a uscire per andare al lavoro o a fare la spesa. Eppure, trovarle in farmacia è davvero impossibile e, comunque, anche le mascherine professionali non si possono riutilizzare. È però possibile farlo dopo averle disinfettate con procedimenti precisi. In queste ore si parla di procedimenti per disinfettare le mascherine ad alte temperature. E Assosistema Confindustria ha chiesto all’Istituto superiore di sanità di concordare un processo sicuro per poterle riutilizzare. Ad oggi però, spiegano a ilfattoquotidiano.it dall’Iss, “non esiste una procedura standard e accettata per disinfettare le mascherine chirurgiche e i filtranti facciali (FFP2- FFP3)”. “Questi dispositivi – spiega Paolo D’Ancona, medico epidemiologo dell’Iss – sono, per certificazione, prodotti monouso, quindi si tratterebbe di procedure che potrebbero mettere a rischio le reale capacità filtrante o la forma del dispositivo o i suoi accessori, come l’elastico per fare un esempio”.

STUDI CINESI SULLE ALTE TEMPERATURE – Ci sono però diversi studi sull’inattivazione con calore sia della Sars sia del Sars-Cov-2, il nome ufficiale del nuovo coronavirus. Il 9 febbraio 2020, il Fudan University Medical College di Shanghai, il Medical Molecular Virology Laboratory of Health Committee e la School of Public Health hanno elaborato un documento di ricerca scientifica sulla rigenerazione sicura e rapida di maschere mediche monouso pubblicato sul Journal of Microbiology and Infection. Secondo lo studio le maschere mediche monouso possono essere disinfettate, anche avvolgendole in sacchetti per la pulizia domestica e utilizzando un asciugacapelli elettrico per 30 minuti. Questo metodo non influirebbe sull’effetto di ritenzione del filtro originale delle maschere e i virus contaminati verrebbero inattivati. Ma non ci sono raccomandazioni condivise a livello internazionale sull’effettivo funzionamento del procedimento.

Sul sito dell’International Medical Center di Beijing, in Cina, invece, si fa riferimento a un altro procedimento che trova maggiori conferme tra gli esperti, ma pone altri problemi. Le mascherine potrebbero essere disinfettate se riscaldate per 30 minuti a temperature superiori 56 gradi Celsius. La singola sterilizzazione a calore secco – viene ipotizzato di portarle a 70 gradi Celsius per 30 minuti – sarebbe in grado di inattivare efficacemente il virus senza influire sulla funzione protettiva della maschera. Non è chiaro, tuttavia, se eseguire più volte la disinfezione influisca o meno sull’effetto protettivo della maschera.

LA PROPOSTA DI ASSOSISTEMA CONFINDUSTRIA – In questi giorni la sezione Safety di Assosistema Confindustria ha chiesto proprio all’Istituto Superiore di Sanità di definire delle linee guida specifiche per evitare che il ‘fai da te’, dovuto alla necessità di reperire sul mercato un numero maggiore di mascherine, porti a conseguenze ben peggiori, anche a livello di responsabilità, per chi rimette in circolo il prodotto. “Fate attenzione a quello che leggete in questi giorni sul web, perché le soluzioni messe in campo mirano ad eliminare la carica virale ma possono danneggiare la capacità filtrante del DPI. Si tratta, infatti, di processi non validati dai produttori”, ha spiegato Claudio Galbiati, presidente della sezione Safety di Assosistema Confindustria. Che ha proposto all’Iss un processo di riutilizzo concordato tra i produttori per riutilizzare i filtri P2 e P3 usati con le semimaschere e, ove possibile, facciali filtranti FFP2 e FFP3. Si tratta dello stesso procedimento al quale questi dispositivi sono sottoposti prima di essere messe in commercio ovvero l’esposizione a temperature di 70 gradi per provare la capacità filtrante. “Stiamo fornendo indicazioni all’ISS già sperimentate – ha dichiarato Galbiati – per quanto riguarda la parte filtrante, con ampia letteratura in merito, per arrivare a definire un protocollo di sanificazione condiviso”. “Si tratta di una misura tampone – aggiunge il segretario generale di Assosistema Confindustria Matteo Nevi – che potrebbe dare però un po’ di respiro in alcune aree del Paese maggiormente colpite e per tutte quelle attività che non prevedono il contatto con il degente”.

IL MICROBIOLOGO: “A 56 GRADI IL VIRUS SI PUÒ ABBATTERE, MA ATTENTI AL FAI DA TE” – Il fattoquotidiano.it ha chiesto dei chiarimenti in merito al virologo Francesco Broccolo, docente di Microbiologia clinica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “Vanno fatte alcune precisazioni – spiega – perché a 56 o 70 gradi non si può parlare di una completa sterilizzazione (le spore resistono), ma di un abbattimento significativo della carica virale e della infettività del virus”. Il punto è capire se tali temperature possono compromettere l’integrità della mascherina. “In attesa di conferme ufficiali sui 70 gradi – spiega Broccolo – è ragionevole consigliare un trattamento a 56 gradi, ma per un’ora, dopo il quale il dispositivo a 56 gradi si parla di abbattimento del virus per almeno un altro riutilizzo”. Ma parliamo di procedimenti che non vanno fatti con leggerezza e, va detto, “non esiste una procedura standard”. “Inserire le mascherine nel forno di casa non mi sembra una grande idea – suggerisce il virologo – anche perché, se anche si abbatte il virus, il problema sono le scorie. E poi sono diversi i fattori che possono compromettere l’integrità delle mascherine, rendendole perfino pericolose. I procedimenti suggeriti, ad esempio, non riguardano i forni a microonde e, in generale, quelli domestici e andrebbero eseguiti in vani utilizzati ad hoc”. Insomma, si tratta di procedure riservate al personale tecnico degli ospedali e sconsigliate ai cittadini.

L’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ È PRUDENTE – Intanto dall’Istituto superiore di sanità arriva la conferma che, ad oggi, “poiché la carenza di dispositivi di protezione individuali (dpi) è un problema a livello mondiale – spiega D’Ancona – sono in corso effettivamente studi e protocolli condivisi per definire quanto più a lungo possono essere usati i dispositivi (ad esempio invece di 3 ore, un intero turno di lavoro), oppure se e per quante volte è possibile ricondizionarli (con perossido di idrogeno, ultravioletti, soluzione alcolica, etc)”. Questo studi, però, al momento non sono esitati in raccomandazioni internazionali condivise: “Si tratta, quindi, di procedure che non garantiscono alcun reale risultato”.

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