C‘è poco da fare, da noi il patrimonio architettonico-storico viene percepito come un peso, una iattura: se un bene è vincolato, e quindi non lo si può demolire come molti auspicherebbero, lo si lascia agonizzare per poi lasciarlo morire.

Ipocritamente tutti a guardare trasmissioni come Meraviglie di Alberto Angela, dove la narrazione è patinata, gli edifici perfetti, tirati a lucido in un contesto fiabesco, con il contorno di comparse in abiti d’epoca che trasportano in epoche lontane e suscitano appunto meraviglia, ma poi nessuno se ne cura; anzi a volte si vandalizza, perché tanto è già fatiscente.

Migliaia di esempi, dal Piemonte alla Sicilia, di edifici abbandonati, potenzialmente riconvertibili con usi consoni alla dignità del bene. Un’inestimabile risorsa, per conservarne il ricordo, per i benefici in termini di occupazione, di sviluppo e turismo culturale e quindi del commercio, ma soprattutto un’alternativa al consumo del suolo, che è uno dei guasti del nostro Paese.

A parte il deprecabile fenomeno dell’abbandono c’è anche quello dell’utilizzo non consono; lungi da me deprecare la rifunzionalizzazione del patrimonio storico, essendo da sempre favorevole, ma deve essere adeguato all’edificio e non deve lederne la memoria e i valori artistici.

Occorre poi spogliarsi di facili demagogie, del mito dell’uso pubblico come unica e saggia soluzione perseguendo il mito del “bene comune”, a volte i privati sono più riguardosi dei gestori pubblici.

Recentemente, nella pur virtuosa Mantova, mi è capitato di vedere edifici di alto valore artistico adibiti ad usi non consoni e con modalità non certo compatibili con la conservazione del bene stesso; per non parlare del discusso triste destino della Cavallerizza Reale di Torino su cui mi sono soffermata più volte.

Dopo anni di degrado indicibile, di manomissioni, di scontri politici sui quali la parola cultura assumeva significati e toni più disparati, a seconda del proprio orticello partitico, dopo tre incendi e un’opinione pubblica esacerbata nel vedere tanto degrado in pieno centro si è data risposta con il temuto spezzatino. Sembra quasi che qualcuno avesse messo in giro la voce: ‘Vi servono spazi? Noi abbiamo più di 40.000 mq vuoti in cui si può fare tutto quel che si vuole. Servono posti letto per studenti: servitevi, servono spazi gioco bimbi: servitevi, servono magazzini per enti: servitevi, servono uffici di rappresentanza per fondazione bancaria: servitevi, servono spazi per l’Università – peraltro già presente con una non felice ristrutturazione nel Maneggio Chiablese -: servitevi’, e così via, varie destinazioni non fra loro del tutto compatibili e che nulla hanno a che fare con l’origine del complesso, ovviamente non lasciando a bocca asciutta chi l’aveva per anni occupata.

La Cavallerizza Reale era tutt’uno con il Palazzo Reale, una serie di palazzine concatenate dove vi erano esercitate attività terziarie e di addestramento alle discipline equestri – di qui il nome. C’era anche un grande spazio destinato al dressage. Viceversa questo insieme di enti che tentano di assemblare nulla hanno a che fare tra loro, né si agganciano alla posizione in cui si colloca il complesso.

La Cavallerizza Reale è infatti incastonata tra le due maggiori realtà musicali torinesi, il tempio di musica operistica, il Teatro Regio e il tempio di musica sinfonica, l’Auditorium della Rai – che non hanno nelle immediate vicinanze quell’insieme di servizi tali da completare l’offerta per l’esigente pubblico dei melomani.

Pertanto non un’idea forte con un progetto unitario conservativo ma tante piccole ristrutturazioni, ognuna con il suo stile, come ha già fatto l’Università, snaturando l’architettura originaria, senza nessuno intento di preservarne o restituirne la Bellezza.

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