È cresciuta e vive nella terra di padre. Anche il lavoro è lo stesso, dalla parte della legge. Eleonora De Falco ha 23 anni e da quasi quattro veste la divisa della Polizia di Stato in un commissariato della provincia di Cosenza, divisione Anticrimine. “Una scelta legata a quanto accaduto a papà”, precisa. Papà è Alberto De Falco, finanziere della Compagnia pronto impiego che nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 2000, vent’anni fa, alle porte di Brindisi, morì schiacciato insieme al collega Antonio Sottile da una Range Rover corazzato con a bordo due contrabbandieri in fuga per proteggere il loro carico di sigarette. Subito dopo il traffico delle bionde, tollerato per decenni, venne smantellato grazie all’Operazione Primavera. Eleonora aveva 3 anni e mezzo e del padre restano le fotografie color seppia di lui che le tiene le manine e un sorriso, occhi negli occhi. E ciò che la madre, gli amici e i colleghi le hanno raccontato di “Lupo”, come era soprannominato Alberto De Falco. Poi c’è quella divisa: “La voglia di indossarla c’è sempre stata ed è certamente legata a quanto gli è accaduto. Ho sempre detto: ‘Voglio diventare come lui’. Oggi con orgoglio posso dire di aver realizzato questo sogno”.

A distanza di venti anni cosa ricorda di suo padre?
Avevo 3 anni e mezzo, ricordare è impossibile. Ho capito con il tempo cosa era accaduto, ho realizzato e metabolizzato. Vivo dei ricordi di mia madre e di quanto ho scoperto documentandomi. Per mamma è ancora una ferita aperta. Appena accadde, scappammo dalla Puglia e tornammo nella terra di papà, originario di Rossano Calabro. Ho compreso che per la provincia di Brindisi era un periodo particolare e difficile, con contrabbandieri e Sacra Corona Unita che avevano agilità di movimento. E che la morte di mio padre ha messo in ginocchio tutto questo.

Chi era Alberto De Falco?
È una domanda che in questi anni, tante volte, ho fatto io. Da come ne parlano mia mamma, gli amici e i colleghi, papà era una persona buona, alla mano, di cuore e che amava quel che faceva. Gli piaceva stare sulla strada, a contatto con le persone. Era soprannominato il Lupo, perché era bravo a svolgere il servizio di notte. Ho scoperto così perché i suoi colleghi da piccola mi avevano soprannominata la lupetta. Mio padre avrebbe potuto benissimo non stare in strada, evitando il rischio, ma il contatto con la gente era ciò che davvero gli piaceva del lavoro. Le dirò di più…

Prego.
Per lui la divisa è stata una scelta vera. Papà veniva da una famiglia benestante e il suo lavoro non è stato un ripiego. Ci credeva davvero, fino in fondo.

In cosa si rivede in lui, al di là della divisa?
Siamo molto simili, non solo allo specchio. La sua esperienza mi ha fatto comprendere il vero significato del coraggio, del sacrificio e del senso del dovere.

I colpevoli dell’omicidio di suo padre e di Alberto Sottile si sono mai fatti vivi?
No. So solo che hanno fatto poco carcere dopo le condanne. Erano fuori dopo pochi mesi. I colleghi di mio padre mi dicono che ancora oggi incontrano uno di loro a passeggio nel centro di Brindisi e nei bar. Tornare ogni anno in città per la commemorazione mi provoca dolore e rabbia. Vedere i suoi occhi in foto e sapere perché non c’è più rigenera il magone.

Se si facessero avanti accetterebbe la richiesta di perdono?
Mia mamma mi ha sempre raccontato che uno dei due, appena saputo che papà aveva una figlia, ha chiesto, attraverso i colleghi, di incontrarla per chiederle perdono. Ha rifiutato. Farei lo stesso io se accadesse oggi. Non sarei mai e poi mai disposta ad incontrarli, se dovessero farsi avanti. Non avrei nulla da dire loro.

Il ricordo è un dovere?
È doloroso, ma necessario. È una ferita che si riapre, ma papà è uno di quei morti da non dimenticare perché hanno lasciato qualcosa di importante, che ha segnato non solo i familiari ma il Paese. E spetta a noi parenti più stretti tenere vivo quel ricordo.

Twitter: @andtundo

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