Tra le tante conseguenze che il mio mestiere implica, vi è quella di esser costretto a sfrondare la follia di quell’aura mistica e favoleggiante che molti media e anime belle sono soliti affibbiarle. Credo, e sono sempre più convinto, che povertà e pazzia siano magnificate da chi non le ha mai provate sulla propria pelle, o conosciute in maniera indiretta.

Se esiste un attore che ha impersonificato la pazzia in maniera inarrivabile, questi è il Flavio Bucci di Ligabue. ‘Laccabue non è mio padre, io qua non ci resto, io voglio tornare in Svizzera!’ dice ancora compensato dopo che gli Svizzeri lo avevano rimandato nella sua Gualtieri perché ‘poveretto’ (‘puvratt’, portatore di quel marchio di follia che ne segnerà la vita).

Bucci che muta aspetto col peggiorare della condizione mentale dell’artista che ha impersonato, sino a trascenderne i tratti e diventare tutt’uno con la metamorfosi del pittore. Bucci che marca la differenza tra un personaggio e un’anima che avverte propria, in una sorta di metodo Stanislavskij ante litteram.

La languida e atroce sofferenza che egli mette in scena quando, in riva a un fiume, osserva con smania bramosa le movenze di quella giovane donna accovacciata a lavare i panni. Lo sguardo di impotente dolore e desiderio che questo attore ha magistralmente tramandato a generazioni di attori e spettatori è fatto delle medesima sofferenza racchiusa nel lancinante grido di Ciccio Ingrassia che, salito sull’albero, grida al mondo ‘voglio una donna!’, dopo essere stato dimesso per un giorno dall’ospedale psichiatrico in Amarcord. Ligabue-Bucci che furtivo e allampanato sbuca alle spalle delle donne sul fiume che gridano al ‘selvatico’, spaventate dal suo sguardo.

“Io con quello ci andrei solo per un milione”, dice la più cinica del gruppo, mentre lui le osserva disperdendosi. “Dammi un bacio, uno solo. Non sai la gioia che mi dai” chiede a Rosetta, l’unica che non scappa davanti al ‘mostro’: “Un bacio e non disturbo più, per tutta la vita!”. Vane richieste irretite dall’avanzare minaccioso delle amiche che lo ricacciano nella foresta.

Gesti unici di un’opera televisiva inarrivabile, quando la Rai ancora anelava all’insegnamento. Cinema magistrale per ricordare a quali piccoli appigli un uomo che impazzisce si possa aggrappare per continuare a camminare. Ligabue che plasma la terra e ne fa una tigre mentre Alessandro Haber gli dice: “ma come gli somiglia!”. Ingrassia che si mette i sassi in tasca perché “sono belli i sassi”.

Un attore schietto, crudo, che tolse quella patina fatta di mitizzazione e indoratura a una condizione che ancora oggi interessa e mette in crisi tante famiglie, spessissimo lasciate sole. Elio Germano, il miglior attore italiano del momento, sta per andare nelle sale con la sua interpretazione del pittore emiliano. Un’asticella molto alta lo attende.

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