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Sanremo 2020, Achille Lauro è lo specchio di un Paese (quasi) finito

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Partiamo da un presupposto pur banale ma, a giudicare dal tenore dei commenti e delle opinioni sparse nell’atmosfera negli ultimi due giorni, neanche troppo: esistono canzoni e canzoni, così come artisti e artisti. Achille Lauro ha il merito di avere compreso, forse più di altri, che un contesto imbalsamato e (musicalmente) assai inutile quale è – da anni – Sanremo ha bisogno di essere scosso per suscitare l’interesse di tutti gli altri: quelli cioè che le canzoni, un minimo, ce le hanno a cuore.

Sanremo è, non meno, quel varco spazio-temporale nel quale una settimana l’anno tutti diventano alfieri o ambasciatori di qualcosa: del glam, del rock, del punk, della buona musica in senso più ampio. Ecco, no: paragonare il Lauro “di turno” a David Bowie, Freddie Mercury o chi per loro (sarebbe bastato, forse, Renato Zero: a sua volta emulatore) non è solo sbagliato o sintomo di ignoranza, è bensì rivelatorio di quanto un paese come il nostro proprio non voglia saperne di recitare un ruolo che conti nella musica internazionale. E’ così nella peggiore delle ipotesi dalla fine del progressive o, nel migliore dei casi, dal depauperamento dell’eredità artistica – pur consistente – lasciata dalla new wave e dal pop-rock degli anni Novanta.

Che Achille Lauro possa piacere è cosa relativa: che passi per artista o pioniere, quando la cosa che meglio pare riuscirgli è ripetersi, tracima invece nel ridicolo. Ci sono artisti e “artisti” dicevamo, e con loro canzoni e “canzoni”: la discussione cade dal momento che ci si rende conto di come un pezzo – a prescindere dal contesto nel quale viene presentato – non nasca necessariamente per lasciare il segno.

E se di intrattenimento parliamo, allora Achille Lauro è un genio: e la prospettiva cambia tutta d’un tratto. Visti i mezzi, scarsi, e il background, inesistente, trattasi allora di un fuoriclasse. In un paese che musicalmente conta quanto un mini-disc nell’epoca dello streaming, far sì che vada di moda ciò che fuori dai confini nazionali è desueto almeno da 40 anni diventa un mestiere per pochi e denota, paradossalmente, un’intelligenza personale di gran lunga superiore alla qualità della proposta artistica di cui sopra.

E quelli che gli danno addosso facendo scongiuri e gesti apotropaici vari non fanno che prenderlo sul serio più di quanto non solo meriti, ma probabilmente lui stesso chieda. In fin dei conti Achille Lauro è lo specchio di un paese se non “finito”, quasi. Che mente dicendo di voler guardare avanti avendo a cuore in realtà i soliti noti: pure nella musica.

C’è meno gente in giro che storce il naso per Marco Masini, o Al Bano e Romina, o Rita Pavone che – tra l’altro – aveva mandato a quel paese i Pearl Jam due anni fa e sostenuto più volte, in precedenza, di essere stata inserita col suo nome e cognome – dai Pink Floyd – in un verso del brano Saint Tropez. Tutto vero.

Sanremo è anche il luogo dove, giusto per rimanere in tema, il videomessaggio di Roger Waters sparisce dalla scaletta (e dalla diretta) probabilmente non per ragioni di tempo ma per i suoi contenuti antiamericani (nell’accezione Trump del termine) e filopalestinesi.

Sanremo è quindi un ‘non luogo’: la periferia della realtà dove l’impossibile si fonde col verosimile. Achille Lauro compreso.

Discorso a parte meriterebbe il tenore dei commenti per la mise da questi sfoggiata, che del tutto era forse il messaggio che più sarebbe dovuto passare: non la pensa alla stessa maniera l’Udicon (Unione per la Difesa dei Consumatori), che non ha esitato nel paragonare l’esibizionismo (è una colpa?) del cantante romano ai testi di Junior Cally: “Lei si chiama Gioia, ma beve poi ingoia / Balla mezza nuda, dopo te la dà / Si chiama Gioia perché fa la troia / Sì, per la gioia di mamma e papà”. Non proprio la stessa cosa.

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