Quasi 60.000 migranti sono arrivati sulle coste greche nel 2019, di cui l’80% è sbarcato sulle isole di Chios, Samos e Lesbo. I tre atolli, a un tiro di schioppo dalle coste turche, nonostante l’accordo milionario firmato tra Ue e Ankara, hanno da sole portato il peso dell’accoglienza.

Per questa ragione il ministro della Difesa ellenico, Nikos Panagiotopulos, ha orientato il governo di Atene a costruire barriere galleggianti per 1,6 chilometri. Non per razzismo, ma per difesa e logistica verso un vicino di casa, la Turchia, che ha altre mire (gas, isole, geopolitica).

Il provvedimento trova la sua ratio non in un piglio ideologico, visto che il partito al governo in questo momento in Grecia non è di matrice sovranista ma conservatrice, liberale e in area Ppe. Bensì si fonda su un principio di merito: le tre isole hanno in questo triennio visto la collaborazione della guardia costiera greca e della pattuglia di Frontex che hanno lavorato assieme al fine di dissuadere i trafficanti di esseri umani dall’inviare migranti su gommoni e zattere sovraffollate.

Ma dal porto turco di Smirne, ad esempio, gli impulsi non sono stati certo quelli dell’accordo siglato da Commissione Europea e governo turco, che il presidente Erdogan continua a rivendicare per strappare altri miliardi ai Paesi membri minacciando di inviare 5 milioni di profughi siriani in Europa, via Grecia.

Sui moli smirnei pullulano venditori di giubbotti di salvataggio, trafficanti in stile “Libia”, mercenari che mescolano tragicamente alle carni anche armi, droga e infiltrati Isis. Anche per questa ragione l’americana Dea ha da alcuni anni impiantato una squadra speciale anti droga in Grecia, per monitorare i nuovi flussi dei trafficanti di stupefacenti.

Ma tornando alla decisione greca, vale la pena ricordare come Atene sia stata di fatto lasciata sola a gestire la prima accoglienza. Solo dallo scorso settembre, le tre isole sono state in parte “sgravate” con il trasferimento di alcune centinaia di migrati sulla terra ferma in hotspot dedicati. In uno di questi, quello delle Termopili costruito dal governo Tsipras nel luogo della battaglia tra i 300 di Leonida e i persiani di Re Serse, che ho visitato personalmente (ecco il documentario che ho girato) ho potuto vedere la disperazione di chi al contempo non voleva arrivare e di chi non può partire.

I siriani non sono migranti economici, ma sono fuggiti dalla guerra. Ho incontrato medici, commercianti, liberi professionisti e finanche un ragazzo che per fuggire dalle mire dell’Isis ha tentato la carta del viaggio proprio per non radicalizzarsi.

Oggi sono ancora bloccati lì, senza un futuro e senza un presente, perché non possono lasciare l’hotspot e non possono tornare indietro in quella Siria dove la Turchia intende fare la parte del leone nella divisione del territorio e nel grande business della ricostruzione.

Nel mezzo la tragedia di centinaia di morti in mare, delle migliaia che si trovano ancora in condizioni disumane in Grecia, dove a Moria è emergenza da mesi. Il muro galleggiante del governo di Atene è il tentativo di richiamare Bruxelles e Ankara alle proprie responsabilità.

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