di Ilaria Muggianu Scano

Un’intesa bipartisan quella che vede unite tutte le forze politiche di Nuoro sotto il nome di Grazia Deledda. Il nuovo polo universitario del capoluogo barbaricino sarà infatti intitolato alla scrittrice nuorese, prima e unica donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura, nel 1926.

Nessun ateneo in Italia risultava, finora, intitolato all’autrice italiana tra le più tradotte al mondo. Per volontà del sindaco Andrea Soddu (Pd) e dei giovani dirigenti Daniele Maoddi e Katia Succu (FdI) nascerà la prima università deleddiana.

Che Nuoro voglia lasciarsi alle spalle la storica idiosincrasia verso la concittadina più illustre? Raccontare le trame del destino mal fatato dei propri concittadini, quella pace che stentava ad affermarsi, incagliata nella guaina di una leppa che il balente aveva il dovere morale e sociale di irrorare del sangue del nemico, nel quadro di una giustizia privata, costa a Grazia un odio a lunga gittata.

I nuoresi accusavano l’onta di una pericolosa verosimiglianza nella prolifica produzione della scrittrice. Una pietrificazione punitiva ma univoca. Deledda, infatti, amerà per sempre quel popolo da cui sentiva necessario affrancarsi per poterne valorizzare i meriti dinanzi al mondo.

“La Sardegna va difesa a Roma” dichiarerà la scrittrice quando nel 1909 sarà la prima donna candidata al Parlamento. Mentre l’isola, a partire dalla sua città, non dà alcun rilievo all’episodio, la stampa di livello evidenzia una certa apprensione circa l’eventualità che l’elezione di una donna possa calamitare una buona dose di voti cattolici.

Timore del tutto infondato dal momento che la Santa Sede è ben lontana dal proposito di appoggiare il voto femminile. Pio X non sembra voler tornare sulla questione: “Non elettrici, non deputatesse. Dio ci guardi dal femminismo politico”. L’unica detentrice femminile del premio capitale per la cultura in Italia, donna senza pigmalioni, ha subìto dai conterranei intellettuali, coevi e non, l’onta di essere definita “traditrice della lingua sarda”.

La letteratura sarda in lingua italiana è opera di un’ardimentosa diciannovenne che seppe ideare e realizzare, senza alcuno strumento culturale, un ibrido linguistico utile a non perdere la vivida coloritura delle espressioni di lingua sarda, ma che al contempo garantisce la godibilità della poetica identitaria a ogni lettore del giovanissimo Stato italiano, che all’epoca in cui la Deledda inizia a scrivere non ha ancora raggiunto i diciotto anni dall’unificazione.

Al contrario di quanto pensavano i detrattori nuoresi, l’intraducibilità delle espressioni idiomatiche locali è la prima, grande consapevolezza linguistica di Grazia Deledda. La barbaricina è narratrice plasmata dalla tradizione orale sarda, e grande e grave è lo sforzo di tradire con la carta “quanto va solo raccontato oralmente”, come le ricordano aspramente generazioni di nuoresi. “Dicono che ho riempito di troppi banditi i miei romanzi, facendo apparire la mia terra brutale, irreale, immorale” sospirerà Deledda.

Il misunderstanding con le genti di Nuoro raggiungerà il parossismo con l’endorsement, seppure solo apparente, espresso verso gli studi della scuola positivista di Cesare Lombroso sulla “razza maledetta”. Ben oltre la morte dell’autrice, la lettura di Grazia Deledda a Nuoro era proibita, dichiarerà Remo Branca, capo d’Istituto del liceo cittadino.

Le ragazze che violavano il decreto popolare avevano il dovere di riferirlo tempestivamente al parroco nel sacramento della confessione. Incredibilmente, neppure la conquista del sommo riconoscimento letterario del Nobel aveva prodotto nessuna correzione nel giudizio di “diffamazione” formulato irreversibilmente dal suo popolo.

Sì, il mondo ora conosceva la Sardegna, ma conosceva la brutta Sardegna. Oggi Nuoro, con tutto il rilievo simbolico di cui è investita la scelta di Soddu, Maoddi e Succu, dichiara tutta la consapevolezza di quanto Nuoro abbia più di un debito di riconoscenza verso Grazia Deledda.

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