Se Matteo Renzi è l’anello sommamente infido nella catena di contenimento del sovranismo/suprematismo montante – in altre parole l’ondata ultrareazionaria (fetido mix di xenofobia, fondamentalismo cattolico, omofobia, patriarcato, misoginia e chi più ne ha più ne metta) che sta travolgendo l’equilibrio democratico costituzionale dell’Italia – il M5S risulta a tutta evidenza quello più fragile e cedente.

Come rivela il fatto che dalle parti di Luigi Di Maio e compagni stia prevalendo una corsa all’intransigenza verbale, destinata esclusivamente a uso interno al Movimento: chetare i risentimenti di talebani alla ricerca di antiche purezze e le frustrazioni alla Barbara Lezzi per mancate riconferme ministeriali.

Insomma, uno spirito di bottega che non riesce a vedere oltre la punta del proprio naso e – rinunciando a ragionare politicamente – si condanna all’impotenza davanti al crollo verticale dei consensi evidenziato dalle ultime consultazioni elettorali; la priorità molto problematica di tenersi stretta la propria base attraverso irrigidimenti di principio, che si traducono nel solo progetto statico di tamponare in qualche modo l’emorragia di consensi nella fascia dei militanti e di quella parte del corpo elettorale che – illusoriamente – si riteneva fidelizzato. Ad esempio, perdendo tempo a mostrarsi irremovibili sugli “scudi vai e vieni” per Arcelor Mittal in Ilva.

Un falso problema, quando i “prenditori” (tipo “prendi i soldi e scappa”) venuti dall’India coltivano ben altri retro-pensieri nel loro precipitoso sbaraccamento da Taranto e Cornigliano: salvare il salvabile del loro impero transnazionale nell’ormai evidente crollo verticale della domanda siderurgica mondiale. L’ennesimo flop della succitata intransigenza labiale dopo Tav, Tap, Autostrade, eccetera. Moltiplicato nel suo effetto screditante dall’andamento ormai ripetitivo.

Venendo ad oggi, un dopo regionali umbre che ha ulteriormente devastato la psiche collettiva a Cinquestelle. Senza tenere conto dei limiti evidenti di quel primo esperimento unitario: l’improvvisazione e le successive maldestraggini gestionali e comunicative, a tutto vantaggio della banda di Matteo Salvini. Per non parlare dell’imbarazzante improbabilità del candidato posto alla guida della cordata: il pallido albergatore Umberto Bianconi, dal profilo politico più che abbastanza disomogeneo rispetto ai promotori giallorossi. Visto che – guarda caso – nelle precedenti elezioni si era impegnato a sostenere le liste destrorse di Forza Italia. All’insaputa di chi lo aveva ingaggiato a fare da uomo-immagine dell’operazione?

Andata come è andata (come non poteva che andare), ora il risultato umbro sembra trasformarsi anzitempo nella pietra tombale di qualsivoglia possibile collaborazione sul territorio tra partner di governo; magari tradotta in qualche forma di desistenza, come modo furbetto per non parlare di fuga. L’ipotesi di cancellazione della propria presenza ai prossimi appuntamenti del voto; che – come minimo – in Emilia favorirà l’attrazione dell’elettorato 5S da parte della candidata leghista. L’ex sottosegretario alla cultura Lucia Borgonzoni; ossia quella che si vantava di non leggere libri.

Ben triste fine per il disegno di un fronte comune contro l’avanzata arrembante dei vessilli dell’imbarbarimento: i truci labari sventolati dalla primordiale Giorgia Meloni con il cavaliere del caos Matteo Salvini, seguiti da Silvio Berlusconi, pronto a ingurgitare qualunque cosa pur di non essere tagliato fuori.

Anche se viene quasi da ridere (per non piangere) al pensiero che i difensori della nuova Vienna assediata dai turchi, di cui il comandante Di Maio si appresta ad abbandonare gli spalti, sono le ombre diafane di Nicola Zingaretti e Roberto Speranza. Non certo impavidi e vigorosi condottieri alla Eugenio di Savoia o Giovanni Sobieski.

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