A partire dalla seconda metà degli scorsi anni Novanta scimmiottare è stata la presunta applicazione pratica dell’alta tecnologia politica. Il di cui impareggiabile modello risultava un impresario televisivo, limitrofo alla malavita organizzata e multi-miliardario, che proponeva come non plus ultra pratiche imbonitorie da venditore di sciroppi miracolosi nelle sagre paesane. E i corifei al suo servizio celebravano tali pratiche abbellendo come “comunicazione” quella che era solo e soltanto bieca propaganda.

L’intero ceto politico ne fu affascinato, riducendosi alla folla di comparse da reality; i cosiddetti spin-doctor (consulenti di immagine) fecero i dollaroni assecondando il trend; la stessa ipotetica “sinistra” entrò definitivamente in quella spirale di carrierismo cinico che le avrebbe prosciugato l’anima.

Il tratto da strapaese, insito nella declinazione del paradigma, andava incrementandosi nel susseguirsi sulla scena politica degli adepti (anche se il padre fondatore/corruttore proveniva lui stesso dalla stirpe dei falchetti brianzoli, noti tirapacchi). Crescendo che trova oggi la propria apoteosi nel trio di comunicatori al ribasso (vulgo piazzisti) che occupa la scena nazionale: il socio di maggioranza del governo Luigi Di Maio, il sabotatore/ricattatore di tale maggioranza Matteo Renzi, il candidato alla distruzione di suddetto governo Matteo Salvini.

Tratto comune all’inclito trio è quello di concepire qualsivoglia scelta politica misurandola sull’unico metro di giudizio del “a me che ne viene?”. Considerando per carità di patria il “che me ne viene” soltanto in termini di potere. Criterio sistematicamente camuffato nelle acrobazie fraudolente ispirate al modello.

Appunto, Silvio Berlusconi; il falso bonario (in effetti cattivissimo) che trova oggi il migliore interprete nel truce Salvini. Il quale, forte dei margini di consenso raggiunti, si può persino permettere il lusso di sorprendere con improvvise giravolte. Come quella di “prendere in ostaggio” Liliana Segre (oggetto di una visita di solidarietà pelosa) per le sue spregiudicate strategie di apparenza: forse contestare un’anziana signora non produce consensi neppure tra gli spurgatori di ottuso risentimento.

Puro opportunismo in ogni caso, che sta facendo regredire la scena politica nazionale a un ben modesto foro boario, dove il mercato delle vacche produce la putrefazione del complesso di problemi che affliggono l’Italia, devastata da decenni di malgoverno. La cui causa primaria va ricondotta alla drammatica consunzione di un abito morale collettivo; nell’inarrestabile migrazione dell’essere nell’apparire indotta dalla comunicazione/propaganda.

Una questione anche di carattere. Il motivo per cui chi scrive continua a considerare il premier Giuseppe Conte, nonostante le giravolte in larga misura obbligate dal contesto di riferimento e dalle urgenze prioritarie (i vincoli della governabilità), di gran lunga il migliore (o il meno peggiore) fico del bigoncio.

Se non altro per le dimostrazioni di coraggio offerte nella sua pur breve stagione politica: dall’andare in Parlamento per riferire del Russiagate nostrano in sostituzione del diretto interessato in fuga, al dire in faccia al fuggitivo Salvini, in un memorabile discorso agostano, quello che gli andava. Oggi presentandosi tra i dannati di Taranto a – come ha scritto Antonio Padellaro – “dare la faccia”. Non è certo un caso se furbetti senza spina dorsale non vedono l’ora di liberarsene. E facciano tutto il possibile al riguardo.

La disomogeneità è troppo alta e tutto induce a pensare che i cospiratori provenienti dai vari lati del campo politico raggiungeranno il loro scopo. Poi la scena sarà solo loro. E credo che ci troveremo in molti a rimpiangere l’avvocato in abito blu e pochette che non si rintanava nelle penombre.

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