Venerdì 25 ottobre è stato un giorno davvero speciale in Australia per coloro che credono nel rispetto dei diritti delle minoranze e nella piena e incondizionata accettazione delle differenze culturali e delle tradizioni ancestrali. A 34 anni dal giorno in cui gli aborigeni Anangu ricevettero il diritto sulla terra di Uluru, il famoso masso nel centro dell’Australia che da decenni costituisce meta imperdibile per i turisti che viaggiano down under, finalmente le autorità australiane hanno deciso di chiudere per sempre l’accesso al sentiero che permetteva di scalare il masso.

Gi Anangu da moltissimi anni chiedevano di proibire la scalata al masso, gelosi delle proprie tradizioni spirituali che ritengono tale terra sacra e quindi non calpestabile. Ultimamente si era anche aggiunta una forte preoccupazione per il profondo impatto ambientale causato dalle copiose quantità di turisti che percorrevano il sentiero. Ma le loro richieste sino a poco tempo fa erano finite inascoltate dalle autorità locali, a dimostrazione di un annoso problema per cui l’Australia “bianca” ha sempre faticato a riconoscere e accettare i diritti e le tradizioni delle popolazioni aborigene. E anche la recente decisione, alquanto celebrata dagli Anangu e – più in generale – da tutte le comunità aborigene in Australia, ha suscitato vivaci polemiche e prese di posizione piuttosto decise contro la chiusura del sito.

Sono stato recentemente in Nuova Zelanda, Paese per certi versi molto simile all’Australia da un punto di vista culturale e sociale e con una presenza massiccia di popolazione indigena (i maori). Ho passato una settimana ad Hamilton e sono rimasto meravigliato (in positivo) da come i neozelandesi abbiano approcciato questo tema in maniera assolutamente brillante, applicando una cultura di pacificazione, rispetto e comprensione che fa vergognare noi australiani. Ho partecipato alla conferenza annuale sulle risorse idriche e la quantità di speaker di origine maori, professionisti affermati ai più alti livelli, era davvero importante. Sono stato a conferenze simili in Australia e mai mi è capitato di imbattermi in presentazioni o workshop diretti da persone indigene. Da noi gli aborigeni vivono tutt’oggi ai margini della società e i pochissimi che riescono a crearsi una vita e carriera di un certo tipo diventano vere celebrità nel Paese, a dimostrazione di quanto tale casistica sia rarissima. Alla conferenza di Hamilton ho incontrato ministri maori, ricevuto materiale informativo redatto in due lingue (inglese e maori) e udito con le mie orecchie ministri neozelandesi “bianchi” rivolgersi alla platea in maori.

Tanto perché possiate fare un paragone tra i due Paesi, il primo medico maori a laurearsi fu Sir Maui Pomare, che ottenne la laurea negli Stati Uniti nel 1898 e rientrò successivamente in Nuova Zelanda per diventare addirittura ministro della Salute nel 1920. In Australia, il primo dottore indigeno, Helen Milroy, si è laureata nel 1983 e il primo ministro aborigeno della storia australiana è stato nominato quest’anno dall’attuale governo, che ha recentemente vinto le elezioni. Governo che peraltro ha sempre mostrato una chiusura piuttosto netta verso le rivendicazioni degli aborigeni, quale ad esempio quella di firmare un trattato con valore legale vincolante tra il governo australiano e le popolazioni indigene. Macchia davvero pesante per il nostro Paese, che è a oggi l’unica nazione appartenente al Commonwealth a non avere un trattato regolatore delle relazioni con le proprio popolazioni indigene.

Vedendo – seppur da lontano – quello che sta succedendo in molto Paesi europei e la recente esperienza leghista al governo, connotata da una forte narrativa anti- “tutto ciò che sa di diverso”, la riflessione è sin troppo banale. Il pianeta è abbastanza grande e spazioso per ospitare diverse etnie, culture, tradizioni e spiritualità. Nessuna di queste è giusta o sbagliata, superiore o inferiore. Purtroppo, il meccanismo mentale più semplice da applicare è quello dell’omologazione, ossia il sentirsi più vicini a coloro che pensano, vivono e mangiano come noi. Perché in fondo ci pone in una situazione di comfort, non obbligandoci a compiere uno sforzo per studiare e comprendere altri punti di vista. E il passo verso lo sviluppare un pensiero di esclusione e discriminazione verso il diverso è immensamente più breve di quanto mi augurerei.

Ma la ricchezza del nostro pianeta è proprio la sua incredibile diversità, che deve essere un valore aggiunto e non una minaccia. Dobbiamo tornare a meravigliarci di fronte a quello che non ci è familiare, pensando a quanto arricchente sia la nostra esperienza sulla terra, che ci espone a culture e tradizioni nuove e diverse dalle nostre. Pensate a quanto sarebbe terribilmente noioso vivere su un pianeta dove siamo tutti uguali, omologati come soldatini. Per poter abbracciare appieno questa visione, il primo step è quello di togliersi dalla testa ogni concetto di superiorità della nostra civiltà rispetto alle altre.

Io ancora mi ricordo di quando vivevo in Gabon e lavoravo con un gruppo di persone con cui mi riunivo regolarmente per motivi di lavoro. Inizialmente ci trovavamo nel mio ufficio, fino a quando essi proposero di incontrarci in un locale all’aperto. Accettai di buon grado, ovviamente, ma mi rimase la curiosità dell’origine di tale esigenza e un giorno lo chiesi a una persona con cui avevo instaurato un rapporto piuttosto amichevole. La risposta al tempo mi lasciò di stucco, facendomi capire come la mia mente a quell’epoca fosse intasata da pregiudizi inconsci: “Federico, alcune persone del nostro gruppo faticavano a stare in una stanza chiusa con te e i tuoi colleghi perché emanate cattivo odore”. Capito? Viene da ridere se pensiamo a tutta la narrativa, cori e canti da stadio e battutacce sull’odore delle persone di colore. Mentre la verità è che, avendo due tipi di odori corporei diversi, a ognuno può sembrare che l’altra parte emani cattivo odore. Di nuovo, non esiste l’odore cattivo o buono, sono solo due tipi di odore differenti.

Per questo la notizia di Uluru è un passo avanti assai significativo: perché l’Australia “bianca” ha finalmente dichiarato che – pur probabilmente non intendendo e condividendo appieno le ragioni degli Anangu – prima di ogni cosa viene il rispetto per tutte le componenti della nostra società, anche se costituiscono un’esigua minoranza. E anche se non si può più scalare il masso, sappiate che se avete intenzioni di visitare il nostro paese Uluru rimane una tappa fondamentale del vostro viaggio, per la sua atmosfera magica di elevata spiritualità. Che è stata finalmente riconosciuta con una decisione che restituisce la sacralità della terra alla cultura indigena.

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