Con toni insoliti, domenica 20 ottobre re Abdallah II di Giordania, da vent’anni sul trono hashemita, ha annunciato che il suo Paese intende recuperare due zone “prestate” a Israele per un periodo di 25 anni in virtù dello storico accordo di pace firmato il 26 ottobre del 1994: “Sono terre giordane e resteranno giordane!”, ha tuonato. Ma si sa, in Medio Oriente la comunicazione politica è sempre infervorata, teatrale e millenaristica.

L’agenzia d’informazione nazionale Petra ha accompagnato la notizia con il commento del deputato Saleh-al-Armuti, il quale si è subito felicitato per la decisione del sovrano, compiacendosi di questo “passo positivo che ridà dignità al cittadino giordano e rinsalda la sovranità sulle sue terre”. Le quali sono piccola cosa: la prima, Baqura-Naharayim, di 6 chilometri quadrati, si trova nella provincia a nord di Irbid; la seconda, Al-Ghamr-Zofar, sta a sud, nella provincia di Aqaba, ed è di 4 kmq.

Da Gerusalemme, al re improvvisamente burbanzoso, ha risposto un distratto Benjamin Netanyahu, poche ore prima che rimettesse nelle mani del presidente Reuven Rivlin il suo mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo (ora la patata bollente è passata al rivale Benny Gantz, di Blu Bianco, ma sono assai scarse le chances di formare una coalizione): “Israele vuole riaprire i negoziati per rinnovare la situazione attuale”. Una replica sommessa.

Le priorità sono ben altre, visto il drammatico contesto regionale delle ultime settimane, con lo sconquasso provocato da Donald Trump e il conseguente patto Putin-Erdogan sul Nord della Siria che rende il capo del Cremlino unico arbitro del Medio Oriente e rinvigora l’eterno duello tra turchi e siriani (Erdogan aveva appoggiato nel 2011 i ribelli sunniti per detronizzare Bashar Assad).

Non solo: le relazioni tra Israele e l’Autorità palestinese sono particolarmente tese. Per dirla a sommi capi, gli interessi inevitabilmente divergenti di Russia, Turchia, Iran stanno mettendo in moto dinamiche assai pericolose, e in questo grande gioco il ruolo israeliano è delicato, perché Washington vorrebbe favorire la creazione di una sorta di Nato del Golfo, in funzione anti Iran, e in questo gioco rientrerebbe pure la Giordania che già di suo si trova in una situazione geopolitica complessa, con l’ipoteca d’essere “patria alternativa” dei Palestinesi, e di avere milioni di rifugiati.

Ben diverso era il clima in cui venne siglato a Washington l’accordo fra Gerusalemme ed Amman, con la benedizione di Bill Clinton. Il 25 luglio 1994 fu il giorno dell’annuncio e delle foto a “futura memoria”. Il 26 ottobre dello stesso anno l’accordo fu ratificato, dopo mesi di complicate trattative. Il Muro di Berlino era crollato cinque anni prima. La riunificazione tedesca era avvenuta in tempi rapidi.

L’apartheid era finito in Sudafrica e Nelson Mandela dava la sensazione che la riconciliazione fosse possibile ovunque. L’Urss si era dissolta. La Cina cominciava a diventare una megapotenza economica. E in Medio Oriente si era battezzato – addirittura con i Premi Nobel per la pace assegnati a Yizhak Rabin e Yasser Arafat – un processo di pace che sino allora tutti dicevano fosse impossibile. Col senno di poi, possiamo dire che fu un’utopia. Un’illusione pericolosa. Le due parti erano in disaccordo su tutto. Ma con altrettanta forza, erano convinte che bisognasse proclamare la pace.

Purtroppo Rabin venne assassinato da un estremista della destra israeliana nel 1995. Era l’unico in grado di convincere gli israeliani a fidarsi della pace proclamata con tanta enfasi e passione, ma osteggiata dalle destre, dagli estremisti, dai radicalizzati. L’unico che predicava la lotta bipartisan contro la violenza e il terrorismo, contro i sabotatori della pace, da un lato e dall’altro. Dopo la sua morte, il sogno è svanito. Il ministro degli Esteri, Shimon Peres, allora non era autorevole e amato come Rabin, sarebbe diventato “padre della patria” solo una ventina d’anni dopo. E Arafat non accettava nuovi compromessi. Non si fidava (nemmeno dei suoi).

Resta il dato storico. Un trattato è morto, l’altro continua a sopravvivere. Gli accordi di Oslo del 1993 – sinonimo di reciproco riconoscimento tra Israele e l’istituzione dell’Autorità Palestinese, dopo 45 anni di conflitti – sono stati seppelliti dal potere nazionalista e religioso e da un Netanyahu in alcun modo disposto a patti coi Palestinesi. Il Trattato con la Giordania del 1994, invece, è ancora in piedi. Pronto a essere aggiornato, nonostante la rivendicazione territoriale di re Abdallah.

Perché dietro ci sono grossi interessi reciproci, a cominciare da quelli della sicurezza (lotta al terrorismo) e dei rapporti economici, in particolare, la grossa questione del controllo delle acque, strumento in cui le incidenze geopolitiche sono vitali. La “geopolitica dell’irrigazione”. La Giordana è infatti tra i paesi più aridi del mondo. Ogni abitante dispone di appena 150 metri cubi d’acqua all’anno.

Inoltre, deve confrontarsi con una crescita demografica impressionante: +2,5%. Una fattore di pressione aggravato dal fenomeno delle transizioni demografiche, collegati agli sviluppi degli avvenimenti regionali. Il controllo delle acque, in un contesto altamente instabile, è una priorità. Inoltre, Amman paga la perdita, dopo la sconfitta nella guerra del 1967, della sponda destra del Giordano – la grande risorsa idrica nazionale, insieme allo Yarmouk. Spartizioni dei flussi controversi e dirimenti. Più volte Amman ha denunciato all’Onu le “violenze idrauliche” subite sia da parte israeliana che da parte siriana.

Ebbene, nell’accordo del 26 ottobre 1994 il tema è centrale ed è regolato nei dettagli, con compensazioni dei prelievi d’acqua, bacini, canalizzazioni, irrigazioni: la sicurezza alimentare non è meno importante di quella antiterroristica. E allora, perché mai re Abdallah II ha rivendicato la sovranità su quei territori “prestati” ad Israele, come una questione vitale? Per ragioni simboliche. Per chetare l’opposizione più radicale dei Fratelli Musulmani (che sono rappresentati dal loro braccio politico giordano, il Fronte d’azione islamico). Ad essi il trattato del 1994 è stato indigesto.

Lo hanno ritenuto troppo favorevole agli interessi israeliani, fonte comunque di corruzione (volano mazzette come nella Beirut dei bei tempi). In tutti questi anni ci sono stati parecchie frizioni tra i due paesi, ma sempre ha prevalso la ragion di stato, mascherata talvolta da emergenza. Nel marzo del 2014, per esempio, un giudice giordano venne ucciso dai militari israeliani al posto di frontiera del ponte di re Hussein, suscitando un’ondata di indignazione e provocando una forte reazione del Parlamento che chiese la liberazione di 26 cittadini giordani detenuti in Israele. Ma il parlamento giordano non ha grandi poteri, come dimostra la firma di un accordo di 10 miliardi di dollari per l’importazione di gas israeliano in Giordania, nell’autunno del 2016.

Dal 2011, infatti, re Abdallah ha rafforzato i suoi poteri esecutivi, in contemporanea con una stretta sul fronte delle libertà d’espressione e della stampa. La mobilitazione popolare contro la normalizzazione con Israele non è riuscita a fare annullare l’accordo del gas e a ripristinare quello con l’Egitto. La rivendicazione quindi delle terre “prestate” a Israele è, in questo senso, una concessione più a uso interno che esterno. In fondo, di che si tratta? Di due territori dallo scarso valore strategico. Prova ne è la contenuta reazione israeliana.

È comunque un messaggio unilaterale. Diretto a Netanyahu, l’interlocutore degli ultimi anni. Un personaggio tuttavia in bilico, che rischia di non essere più premier. Resta, tuttavia, colui che ha bloccato definitivamente il processo di pace coi palestinesi – che in Giordania sono la minoranza politica più influente – e che ha chiuso ogni porta, con l’appoggio di Trump, alla soluzione dei due Stati, opzione popolare tra i giordani: ma lo è per re Abdallah? Il messaggio non avrà risposta. Troppo stretti, infatti, sono diventati i legami fra i due paesi. A prescindere dalla sicurezza, ci sono quelli legati all’economia.

Israele, carente di manodopera, ha bisogno dei frontalieri giordani e palestinesi (e questo è gradito da Amman). Quanto alla sicurezza, in questo quarto di secolo, si è stabilita un’alleanza strategica: il regime giordano dipende largamente da Gerusalemme per le informazioni sulla sicurezza mentre Israele beneficia del controllo che il regime di re Abdallah esercita sulla sua popolazione (oltre 10 milioni di abitanti) e, in qualche modo, sulla popolazione palestinese. Un matrimonio d’interesse che giova profondamente nella lotta contro il terrorismo. Ed è utile per decifrare i complicati eventi siriani. Insomma, un’alleanza complicata ma efficace. Che sta per accogliere un nuovo, più ingombrante, partner: i sauditi.

L’ambizioso principe ereditario Mohamed bin Salman da tempo sta sdoganando Israele, all’insegna della realpolitik: lo stato ebraico non viene più percepito come nemico dell’Arabia Saudita ma come potenziale socio nel quadro del confronto contro la minaccia strategica portata avanti dall’Iran nel Golfo Persico. Uno schema strategico in cui si posizionano su un lato Iran, Turchia e Russia; sull’altro, Arabia, Israele e Stati Uniti.

C’è però un intoppo. Che non è determinato dalla titubanza eventuale della Giordania. O dalla diffidenza di Israele. Ma dal caso Khashoggi. Jamal Lhashoggi, il giornalista assassinato e smembrato nel consolato saudita di Istanbul.

Questo caso infame indebolisce l’alleanza strategica di Riad con Washington, e Gerusalemme patisce di conseguenza questa fragilità. Vittima collaterale dei rischi disinvolti di bin Salman (vedi la guerra nello Yemen). Un puzzle in cui il ruolo della Giordania è quello di chi si barcamena tra i predoni del Medio Oriente: l’alleanza storica con gli Stati Uniti e i Paesi del Golfo (i principali erogatori di prestiti e fondi), la Russia che vuole dirigere l’orchestra, l’Iran che non accetta sudditanze e ricatti petroliferi, i Palestinesi recalcitranti.

Con Israele di necessità si fa virtù. E con l’Arabia Saudita, ne segue a malincuore certe scelte che mettono Amman in imbarazzo. Quando Riad ha rotto nel giugno del 2017 le relazioni diplomatiche con il Qatar, la Giordania si è trovata a dover accondiscendere l’Arabia. Però poco poco: limitando i rapporti diplomatici. Ma non gli altri.

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