Entro cinque anni potrebbe essere disponibile il primo prototipo funzionante di utero artificiale. Nulla a che vedere con la fecondazione eterologa né tantomeno con la maternità surrogata, il cosiddetto utero in affitto. Sono tutti termini relativamente nuovi nel panorama della fecondazione assistita, e per i non addetti ai lavori non è sempre facile destreggiarsi all’interno di questi scenari.

Per inciso, quindi, in questo caso stiamo parlando della realizzazione del primo dispositivo al mondo in grado di sostituire l’utero di un essere umano riproducendo le stesse condizioni biologiche del ventre materno, dal liquido amniotico al battito cardiaco della madre. Neanche il tempo di capire davvero bene di cosa si tratta, insomma, e potremmo assistere alla nascita dei primi bambini in stile “Matrix”.

A realizzarlo, secondo le previsioni, sarà un gruppo di ricercatori olandesi finanziati dal programma Ue Horizon 2020, che promettono di ricreare persino l’esperienza stessa vissuta dal bambino all’interno dell’utero materno, con gli stessi rumori, gli stesi stimoli visivi e gli stessi odori. Poco meno di tre milioni di euro – a tanto ammonta il finanziamento – per provare a centrare un obiettivo che potrebbe davvero rappresentare una rivoluzione per il mondo delle gravidanze pre-termine, ossia per quel milione di bambini che oggi muoiono ancora a causa della prematurità e di tutti quelli che ne portano le conseguenze in termini di disabilità.

L’altra faccia di una medaglia sono i potenziali rischi e le inevitabili perplessità etiche che la questione suscita. Quali potrebbero essere, ad esempio, gli impatti sulla nostra società nel caso in cui l’utero artificiale, oltre ad essere utilizzato per casi specifici come per i bambini prematuri, dovesse diventare un’alternativa alla gravidanza naturale? E quali le conseguenze sul bambino?

I nati da fecondazione artificiale, mi chiedo, saranno davvero bambini come tutti gli altri o avranno qualcosa di davvero più artificiale, come il nome dell’utero che li ha “partoriti”? Un dispositivo che ricrea – o si propone di ricreare – l’utero anche a livello esperienziale potrà davvero riprodurre lo stesso habitat materno, così intimamente legato alla natura e alla psicologia della madre stessa? E quell’indissolubile legame che lega la madre al suo bambino, e viceversa, sarà preservato?

Anche nell’ambito dei diritti alle donne, in realtà, la questione è dibattuta. Evie Kendal, una ricercatrice bioeticista australiana, nel suo libro Equal opportunity and the case for state sponsored ectogenesis sostiene che l’utero artificiale potrebbe rendere le donne più libere, sollevandole da quelle disparità nella distribuzione dei rischi associati alla riproduzione che è indiscutibilmente tutta a svantaggio delle donne.

Una disparità “fisica”, soprattutto, ma anche sociale ed economica considerando la sproporzione dei congedi parentali e la disparità di salario tra uomo e donna che determina il fatto che a rinunciare al lavoro per crescere i figli – nel 99% delle relazioni eterosessuali – sia la donna.

Insomma, l’utero artificiale è considerato dalla Kendal come uno strumento di ridistribuzione dell’uguaglianza in un ambito, quello della procreazione, dove sarebbe la stessa biologia a perpetuare il “gender gap”.

Mi domando da tempo se questa sia una scommessa nella direzione dell’uguaglianza di genere. E se forse questo sia l’unico “gender gap” a cui personalmente, come donna, non vorrei rinunciare? Siamo davvero pronte, noi madri, che della maternità portiamo non solo le difficoltà ma anche tutti quei privilegi che si legano indiscutibilmente al mistero della nascita, a delegare questo compito a una “macchina”? Siamo certe che nulla cambierà tra noi e il nostro bambino?

Sto leggendo il più possibile sul tema. Vi chiedo, se aveste libri o autrici e autori da segnalarmi, di scrivermi. Sta accadendo, adesso, e la terra un po’ trema.

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