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Carceri, dopo San Gimignano un messaggio si sta facendo strada: denunciare si può

Carceri, dopo San Gimignano un messaggio si sta facendo strada: denunciare si può
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Finalmente qualcosa sta cambiando. Se non nell’atteggiamento di quegli agenti di polizia penitenziaria che ancora continuano a sentirsi al di sopra della legge, in quello dell’autorità pubblica nonché delle persone detenute. È partita da queste ultime la denuncia del brutale pestaggio che sarebbe avvenuto l’11 ottobre 2018 ai danni di un signore di 31 anni recluso nel carcere di San Gimignano. Un nuovo messaggio si sta facendo strada nel mondo penitenziario: denunciare si può. Anzi, forse, denunciare si deve. Il caso Cucchi in particolare ha detto all’Italia intera che la detenzione non è un luogo di assenza dei diritti, dove ogni abuso su chi è in custodia è permesso, se non dalle norme, dall’impunità di fatto.

Per la prima volta da quando, con colpevole ritardo, il codice penale italiano se ne è dotato nel luglio 2017, viene contestato il reato di tortura nei confronti di pubblici ufficiali. Vedremo.

Già da ora tuttavia possiamo dire tre cose:

1. Che purtroppo la violenza in carcere esiste. E che quando persiste è un elemento di sistema. Affinché possa darsi violenza, deve quanto meno esserci attorno un ambiente di omertà che, pur non sostenendola, tuttavia non la combatte. A San Gimignano sembra infatti si stia evidenziando un generale clima violento, risalente e diffuso.

2. Che i detenuti stanno acquistando consapevolezza dei propri diritti e non sono più disposti al totale silenzio. Qualcuno comincia a raccontare. Qualcuno denuncia. Come accadde per le tante lettere dal carcere di Viterbo ricevute da Antigone nei primi mesi del 2019, che denunciavano brutali maltrattamenti all’interno dell’istituto e per i quali è in corso un procedimento penale.

3. Che l’amministrazione penitenziaria sembra decisa a fronteggiare con nettezza gli episodi di violenza. L’inchiesta disciplinare che si affianca a quella penale per gli eventi di San Gimignano ha già portato alla sospensione di quattro dei 15 poliziotti indagati. Poche settimane fa il parente di una persona detenuta nel carcere di Monza ha telefonato al nostro ufficio per denunciare i pestaggi, ripetuti e al tempo ancora in corso, del congiunto che si trovava in isolamento. Antigone ha immediatamente riferito all’amministrazione penitenziaria, che anche qui è intervenuta prontamente mettendo fine agli abusi e requisendo le telecamere interne nelle quali gli eventi sembra siano registrati in tutti i particolari. C’è stata ovviamente una denuncia penale e sentiremo nei prossimi mesi parlare ancora parecchio dell’inchiesta di Monza.

Solo la fermezza e la netta condanna in ogni episodio di violenza in carcere da parte dell’amministrazione penitenziaria, prima, e della magistratura, poi, potrà portare a un cambiamento di percezione diffuso, duraturo e pervasivo, che investa anche le forze di polizia in tutti i propri elementi. Ogni messaggio di omertà, di spirito di corpo e di impunità è servito degli scorsi decenni a perpetrare quella convinzione di poter essere sopra la legge che è stata propria di una (pur ridotta) parte della polizia penitenziaria. I sindacati di polizia dovrebbero per primi lanciare messaggi culturali netti e decisi su questo tema. Non sempre è stato così. Ci piacerebbe confrontarci con loro al proposito.

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