La vicenda è ormai nota: ieri Facebook e Instagram hanno oscurato i profili social di Casapound e Forza Nuova condannando le due organizzazioni e alcuni loro fondatori e rappresentanti all’ostracismo. Via dalle due piattaforme social per sempre. Una sentenza pronunciata e eseguita senza processo, senza contraddittorio, senza difesa.

La decisione, come talvolta capita, è tanto giusta nella sostanza, tanto popolare, tanto condivisibile che cogliere l’occasione per discutere del metodo, delle regole, del sistema è difficile e rischia di risultare impopolare. C’è in agguato il rischio di sentirsi dare dell’avvocato degli odiatori, di difensore dei violenti, dell’apologo degli estremisti e dei fascisti.

Ma, sfortunatamente, l’attenzione su questioni come questa – che pure sono centrali nel governo del futuro – raggiunge soglie adeguate solo in occasioni come questa, solo nell’immediato, solo nell’emergenza, solo davanti a episodi estremi.

E allora bisogna accettare il rischio, cercare di fare astrazione, rinunciare a discutere dei fatti di attualità e elevare il ragionamento oltre il contingente, oltre i fatti avvenuti ieri, oltre il ban che in tanti avremmo auspicato arrivasse anche prima per chi confonde la libertà di parola con la libertà di offendere, incitare all’odio e alla violenza, vilipendere la democrazia e aggredire il prossimo solo perché diverso, anche se, molto spesso, migliore.

In questo esercizio quanto è accaduto ieri – e non è stata la prima volta – è un fatto serio, democraticamente rilevante, giuridicamente significativo.

Facebook e Instagram hanno dichiarato che all’origine della loro decisione ci sono i loro termini d’uso e non le nostre leggi. I profili in questione sono stati chiusi perché violavano il contratto che lega il gestore delle piattaforme social ai suoi utenti, il proprietario del giardino privato ai visitatori. Sbattuti fuori perché hanno calpestato le aiuole mentre nel regolamento affisso all’ingresso c’era chiaramente scritto di non farlo.

La prima questione da porsi riguarda la legittimità della condotta di Facebook e Instagram.

La risposta è facile e, a regole vigenti, è positiva: legittimamente hanno sbattuto fuori dalla piattaforma chi ha violato il contratto e toccherà eventualmente ora a chi è stato sbattuto fuori ricorrere a un giudice sostenendo di non aver mai violato quelle regole e di aver pertanto diritto di continuare a fruire del servizio. La strada sembra davvero in salita.

Ma questa non è la questione principale.

La questione principale è se la nostra democrazia può permettersi che il gestore di una piattaforma che ha assunto una funzione sociale, politica, democratica come Facebook – ma naturalmente il discorso non riguarda solo Facebook – agisca come se la questione dell’odio online, dell’apologia del fascismo, della violenza verbale sia solo una questione privata, una partita tra proprietario del giardino e visitatori.

E, in questo caso, la risposta è più complicata.

Una prima risposta possibile è che quanto accaduto non è solo democraticamente sostenibile ma, addirittura, democraticamente auspicabile perché, ieri, Facebook e Instagram sono scesi in campo dalla stessa parte della democrazia mettendo a tacere chi la democrazia ha sfidato, vilipeso e minacciato.

Ma è una risposta che ha il sapore macchiavellico del fine che giustifica i mezzi e dalla quale, forse, dovremmo trovare il coraggio di rifuggire.

Perché ieri Facebook e Instagram sono intervenuti ma, inesorabilmente, ci sono state e ci saranno occasioni nelle quali non riusciranno a intervenire o, magari, sceglieranno di non intervenire perché la vicenda avrà un impatto mediatico inferiore e non raggiungerà un adeguato livello di attenzione o perché valuteranno diversamente da come faranno i più, talune parole, espressioni o organizzazioni. E, a quel punto cosa diremo?

Semplicemente che essendo il proprietario di un giardino privato può scegliere di tollerare che qualcuno calpesti le aiuole il lunedì ma non che qualcun altro le calpesti il martedì? Naturalmente no. Questo, davvero, non sarebbe democraticamente sostenibile, falserebbe le regole della democrazia che impongono che i diritti e le libertà competano a tutti in eguale misura e che altrettanto valga per i limiti.

E la verità è che Facebook, Instagram ma anche le altre piattaforme di analoghe dimensioni e successo di pubblico non possono più essere considerate semplicemente come giardini privati. Ormai – e da tempo – sono autentici strumenti di cittadinanza, essential facilities democratiche, piattaforme globali di confronto.

E allora, forse, dovremmo avere il coraggio di ammettere che di questioni di questo genere, in democrazia, deve e può decidere solo un Giudice, solo un Autorità indipendente, solo, sempre e comunque lo Stato all’esito di un giusto processo, rapido, veloce, efficace quanto più possibile.

Ma abbiamo – e avremo domani – il coraggio di dire che pur di difendere questo principio che è caposaldo di democrazia, siamo disposti ad accettare il rischio che, qualche volta – magari spesso – gli odiatori continuino a urlare online più di quanto non avrebbero fatto se avessimo lasciato a Facebook e agli altri il diritto di farli smettere in qualsiasi momento sulla base di una decisione completamente autonoma?

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