Il suo nome viene rilanciato sul web come la “Carola Rackete italiana”, “vittima” del governo francese. Decine i post, le immagini e gli articoli che hanno iniziato a girare e che in poco tempo sono diventati virali. Francesca Peirotti da giorni è usata come una bandiera da sovranisti ed esponenti del Carroccio (tra i primi Alberto Bagnai) per dimostrare che il governo italiano in tema di migranti si comporta come i vicini europei. E su di lei, senza che abbia rilasciato dichiarazioni, girano le ricostruzioni più fantasiose. Una su tutte? Che sia in carcere a scontare la sua pena. “Ho ricevuto chiamate e messaggi dagli amici preoccupati per me”, racconta in esclusiva a ilfattoquotidiano.it. “E’ tutto falso”. “Nessuno si è davvero interessato alla mia situazione, per loro si trattava solo di trovare un caso da rinfacciare al governo francese”.
Peirotti è nata a Cuneo 32 anni fa. Dopo una laurea e un master in economia ha scelto di passare un anno in Eritrea e successivamente diversi mesi al fianco dei migranti sulle frontiere, prima a Ventimiglia poi nella “jungle” di Calais. Un profilo per molti versi sovrapponibile a quello della capitana della Sea-Watch Carola Rackete e la stessa accusa da cui difendersi: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Nel novembre del 2016 infatti Francesca viene fermata a Mentone alla guida di un furgone proveniente da Ventimiglia, con lei una coppia eritrea e il loro bimbo di 6 mesi, tre ragazze e due ragazzi di Eritrea, Etiopia e Ciad, tutti appena respinti in Italia dalla polizia francese. Francesca li avrebbe tutti ospitati per poi aiutarli a proseguire il loro viaggio: “Le persone che accompagnavo in Francia non sono ‘migranti’, sono miei amici a cui ho dato un passaggio, e non è mia abitudine chiedere i documenti agli amici”. Dichiarerà pochi mesi dopo in aula, rifiutando di riconoscere come “reato” il suo gesto di solidarietà.

Per questi fatti Francesca è stata condannata in primo grado dal Tribunale di Nizza a una multa di mille euro. Nonostante la sentenza, riconoscesse le ragioni umanitarie della sua azione, ha scelto di fare ricorso e lo scorso luglio il Tribunale di Aix-en-Provence l’ha condannata a 6 mesi di carcere con la sospensione della pena e 5 anni di interdizione dalla regione delle Alpi Marittime. Oggi è libera, non ha dovuto pagare nessuna multa e attende serenamente l’ultimo grado di giudizio della Cassazione. A tre anni da quei fatti per lei sono cambiate molte cose, si è sposata e lavora come operatrice sociale a Marsiglia, dove vive con il marito e la figlia di undici mesi.

In questi giorni sono circolate bufale che ti vedevano in carcere, condannata a sei anni…
Me ne sono resa conto quando ho iniziato a ricevere chiamate e messaggi da amici in Italia molto preoccupati per me.

Che effetto fa ricevere attenzioni da un’area politica che ha sempre sostenuto la chiusura delle frontiere?
Vedersi contrapposta ‘in quanto italiana’ a una vicenda come quella vissuta suo malgrado da Carola Rackete è davvero imbarazzante, anche perché ovviamente al suo posto avrei fatto la stessa cosa. Tra l’altro nessuno si è davvero interessato alla mia situazione, per loro si trattava solo di trovare un “caso” da rinfacciare al governo francese che si è “permesso” di criticare l’accanimento con cui quello italiano ha cercato di impedire la conclusione della missione di salvataggio delle persone a bordo della Sea-Watch.

Certo non si può dire che Macron sia tenero con chi aiuta i migranti in Francia e insieme a te sono tantissimi i cittadini francesi costretti a giustificare in tribunale le proprie azioni in difesa dei sans papiers.
Ma è demenziale che a fingere indignazione per le politiche di criminalizzazione della solidarietà di Macron sia chi sostiene l’alleanza con la Le Pen, che rispetto alla chiusura della frontiera con l’Italia promette di fare molto peggio. Con che faccia si scandalizzano per quello che il governo francese fa alle frontiere, se gli è possibile solo grazie a un uso spregiudicato del Regolamento di Dublino, che Lega e M5s in Europa non hanno voluto superare?

Per il resto qui il clima non è molto diverso da quello che si respira in Italia, se ti limiti a offrire servizi meramente assistenziali sei tollerato (e anche funzionale a risolvere problemi “di ordine pubblico” che lo Stato non sarebbe in grado di gestire) se inizi a osservare e denunciare il comportamento e le violazioni di polizia, esercito e gendarmerie alla frontiera franco-italiana vieni perseguito. Si cerca in tutti i modi di evitare che alla solidarietà si unisca la protesta politica.

La Corte Costituzionale francese ha chiarito che è lecito aiutare chiunque si trovi già sul territorio francese. Altra questione resta l’aiuto a passare la frontiera, perché hai scelto di correre i rischi anche penali?
Come ci si può voltare dall’altra parte quando la chiusura della frontiera causa continue violenze e morti? Non dimentichiamo che le vittime non ci sono solo nel Mediterraneo, ma anche al confine tra Italia e Francia dove a causa della militarizzazione della frontiera sono morte oltre 15 persone negli ultimi tre anni. Di fronte a questa situazione, per me e tante altre persone, è inevitabile prendere posizione.

In questi mesi sembra crescere una sensibilità antirazzista che ai tempi del governo Renzi prima e Gentiloni poi sembrava un po’ sopita, anche in reazione ai toni forti usati da Salvini. Pensi che questo possa essere un elemento positivo?
Non so, da una parte fa piacere vedere un risveglio solidale, eppure in termini di consenso elettorale sembra che la Lega abbia tutto vantaggio da questa situazione. Penso sia sacrosanto difendere il diritto di accogliere e l’apertura dei porti, ci mancherebbe, ma il rischio è quello di restare all’angolo dove si viene costretti dalla propaganda degli opposti sovranismi, in Francia come in Italia.  Il punto centrale per me non può che essere la difesa del diritto alla libertà di circolazione, che oggi viene impedita a molti generando tutte le conseguenze che vediamo.

Cosa ti aspetteresti da chi in parlamento si proclama contrario delle politiche di chiusura delle frontiere?

Le organizzazioni politiche che si definiscono antirazziste, ora più che mai, dovrebbero impegnarsi per rendere possibile ottenere i documenti per restare, lavorare, vivere e viaggiare, canali legali e sicuri per muoversi senza dover essere costrette alla clandestinità e alla perdita dei propri soldi, della propria libertà e sempre più spesso della propria vita, occuparsi più di quello e meno della difesa di un sistema di ‘gestione’ dell’accoglienza che ha dimostrato in diverse occasioni di rivelarsi passivizzante e spesso controproducente.

Quando in Francia hanno iniziato ad arrestare e processare le persone solidali con i migranti bloccati a Ventimiglia si è assistito a una divisione tra chi ha deciso di rivendicare le proprie azioni politicamente e cercare un dialogo istituzionale e chi ha preferito tenere un profilo più basso, cosa vi divide?

Personalmente ho sempre preferito evitare la “mediatizzazione” delle nostre azioni per diversi motivi, il primo è che temo non serva a nulla, basti pensare al caso di Cedric Herrou, che ha fatto il giro del mondo, eppure a oggi non ha sbloccato la situazione della Val Roja, che oggi è più militarizzata di prima.D’altra parte chi ha scelto di “mediatizzare” le sue scelte sostiene che questo sia indispensabile per tentare di cambiare le cose, senza di loro diverse violazioni francesi che altrimenti sarebbero restate sotto silenzio. È chiaro che ognuno lotta nelle modalità che sente più efficaci, io preferisco evitare ogni forma di “personalizzazione” perché su quel furgone c’ero io, ma a fare la stessa cosa sono in molti. Creare figure “eroiche” rischia di allontanare queste azioni dalla gente comune, mentre pensiamo che quello che facciamo non solo sia “umano” ma anche “normale” e doveroso, non può essere una scelta di pochi “martiri” che si sacrificano per la causa. Il punto è che fino a quando ci saranno frontiere chiuse ci sarà sempre qualcuno che avrà bisogno d’aiuto e, di conseguenza, ci sarà sempre qualcuno disposto a darlo, legale o illegale che sia. Per nostra lotta non può limitarsi a “permettere di aiutare”, deve andare alla radice delle cause di queste situazioni di ingiustizia e disuguaglianza. Concentrarsi sulla figura di noi “europei-bianchi” è facile, come lo è anche prendere le nostre difese. Ma il nostro obiettivo non può limitarsi a “difendere i solidali”, lo scopo della lotta non può che essere quello di evitare che sia necessario violare la legge per rispettare i diritti umani. Al centro del dibattito non può esserci il “piccolo” prezzo che rischiamo di pagare noi, ed è ridicolo rivendicarlo quasi fosse un fardello dell’uomo bianco 2.0. Le ingiustizie vere e il prezzo più alto lo pagano sulla propria pelle i migranti, loro dovrebbero essere al centro del dibattito, e sicuramente direbbero cose più interessanti di quelle che diciamo noi.
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