Il termine inglese burn out (col significato di scoppiare, crollare, spegnersi, esaurirsi) viene utilizzato da parecchi anni per descrivere una sindrome caratterizzata da progressiva perdita di ideali, energia, propositi e scopi che si determina sui luoghi di lavoro. In particolare il lavoratore, che solitamente inizia la sua attività spinto da motivazioni professionali, etiche e sociali, nel tempo tende ad assumere un atteggiamento disincantato e disilluso. Questa sindrome è stata studiata, inizialmente, soprattutto nelle professioni di aiuto agli altri, quali quelle sanitarie, scolastiche e di assistenza socio-economica. Assieme al dottor Ferdinando Pellegrino di Salerno abbiamo attuato dieci anni or sono parecchie ricerche in questo settore. Recentemente il collega ha scritto il libro: Burnout, mobbing e malattie da stress (Positive press, Verona).

Notizia di quest’ultima settimana è che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto tale sofferenza, specificando che non si tratta di una vera e propria malattia, caratterizzata da sintomi ripetitivi e una causa ben definita, ma di una sindrome che si manifesta con una costellazione di sintomi e segni che possono variare e non sono riconducibili a una causa comune. Nella situazione di burnout il lavoratore rinnega le spinte emotive che lo avevano portato a scegliere quel lavoro, il più delle volte inconsciamente, legate ad elementi della sua vita infantile. L’accettazione di una realtà vissuta come frustrante lo porta a concepire il lavoro come fonte di malessere.

Le fasi di questa difficoltà vengono descritte sinteticamente nel seguente modo:

1. Fase dell’affaccendarsi: molto impegno, pochi risultati, inconcludenza;
2. Fase di distacco: riduzione attività, rivendicazioni verso colleghi o istituzioni, rabbia verso un particolare collega, vissuto come causa di tutte le difficoltà;
3. Fase emotiva: stato ansioso, senso di delusione, emotività, reazioni psicosomatiche quali ipertensione, tachicardia, vertigini, malesseri intestinali o altro;
4. Fase distruttiva nelle relazioni familiari e sociali in cui il malessere si trasmette ad altri ambiti di vita. In alcune occasioni questa sofferenza sfocerà in veri e propri quadri clinici di somatizzazione o di depressione.

Ricordo il caso clinico di un poliziotto che aveva iniziato il suo lavoro, credendo fortemente all’idea di legalità e che, dopo 20 anni, si sentiva depresso e demotivato, ritenendo di aver sbagliato tutto nella vita. Il recente episodio di un preside che si è suicidato, in correlazione temporale con una sorta di sciopero degli studenti e genitori contro la sua gestione, fa pensare a una rilevante sofferenza correlata alla sua attività.

Si tratta di un malessere che nei luoghi di lavoro non deve essere sottovalutato perché provoca calo delle prestazioni e dell’efficienza del personale, conflitti continui con liti esplicite o denunce, assenteismo marcato e disagio. Occorrerebbe informare il personale per riconoscere negli altri e in se stessi i primi sintomi del burn out per porre in essere strategie educative di supporto e motivazione.

Articolo Precedente

Albert Einstein, così un’eclissi solare un secolo fa confermò la Relatività

next
Articolo Successivo

Salvini, ‘migranti malati di tubercolosi e scabbia’. Cosa c’è di falso e di vero

next