Il riscaldamento e gli allevamenti intensivi inquinano più di auto e moto e sono responsabili di più della metà delle emissioni. È quanto emerge da uno studio dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che ha analizzato l’inquinamento da Pm 2,5 (particolato fine) e Pm10. In particolare il riscaldamento è responsabile del 38% del particolato, mentre gli allevamenti lo sono del 15,1%. Lo stoccaggio degli animali nelle stalle e la gestione dei reflui inquina più dei veicoli leggeri (al 9%) e persino più dell’industria (11,1%). “Non basta fermare il traffico. Non basta agire sul riscaldamento”. Per migliorare la qualità dell’aria che respiriamo si deve agire anche sugli allevamenti”. Come spiega Mario Contaldi, esperto dell’Ispra “per migliorare la qualità dell’aria che respiriamo si deve agire anche sugli allevamenti”. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2016 circa 4,2 milioni di persone al mondo sono morte prematuramente a causa dell’inquinamento atmosferico.

PARTICOLATO PRIMARIO E SECONDARIO – Lo studio di Ispra analizza sia il particolato primario sia quello secondario. Quando si parla di inquinamento, infatti, spesso si fa riferimento alle emissioni primarie emesse direttamente, ad esempio, dai tubi di scappamento delle auto. Interessante, però, è vedere cosa cambia nelle percentuali se si prende in considerazione anche il particolato secondario, ovvero quello prodotto in atmosfera da reazioni chimiche che coinvolgono diversi gas. “Il PM10, e ancora di più il PM2.5, è composto per una percentuale rilevante da particelle di natura secondaria – spiega Vanes Poluzzi, responsabile dei Centri tematici regionali Qualità dell’Aria e Aree Urbane di Arpae Emilia-Romagna – che si formano in atmosfera a partire da ossidi di azoto e di zolfo, ammoniaca e composti organici volatili”. Calcolare esclusivamente il Pm primario porta a distorsioni importanti. Per esempio, nelle principali città lombarde, il particolato secondario è maggiore del primario. La nuova analisi ribalta la classifica delle attività che più di tutte contribuiscono alle emissioni. Accade a livello nazionale e, per fare alcuni esempi, in Lombardia, Emilia e Veneto.

GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI – È emblematico il dato nazionale sugli allevamenti intensivi, il cui contributo al Pm primario è irrisorio, ammonta in media a poco più dell’1,5% delle emissioni. “Al contrario – spiegano gli esperti – diventano centrali se si prende in considerazione anche il particolato secondario, ovvero quello derivante dalla produzione di ammoniaca (NH3) che, liberata in atmosfera, si combina con altre componenti per generare proprio le polveri sottili”. Ed è enorme la quantità di ammoniaca prodotta da bovini, suini e ovini stipati negli allevamenti intensivi, responsabili di oltre il 75% dell’emissione di ammoniaca in Italia. Pur avendo un peso maggiore rispetto ai mezzi leggeri, questo settore non può essere oggetto di misure di emergenza.

IN CONTROTENDENZA – Tra le soluzioni più efficaci, secondo Ispra, c’è la riduzione del numero di animali negli allevamenti intensivi: “Un’azione che porterebbe a una rivoluzione in questo settore”. I dati degli ultimi sedici anni, infatti, fanno emergere l’assenza di qualsiasi tipo di miglioramento in termini di inquinamento da Pm. “Anzi – si sottolinea nel dossier – se nel 2000 gli allevamenti erano responsabili del 10,2% di particolato, nel 2016 la percentuale di Pm2,5 causato dagli allevamenti ha subito un incremento del 32%. Così, negli ultimi anni, se è diminuito il contributo di auto e moto nonché del trasporto su strada, così come quello dell’agricoltura, dell’industria e della produzione energetica, è invece aumentato il contributo del riscaldamento (dal 15% del 2000 al 38% del 2016) e del settore allevamenti (dal 10,2% al 15,1%).

COSA CI CHIEDE L’EUROPA – L’Ispra ha calcolato la responsabilità dei vari settori sulla concentrazione di Pm2,5 anche perché l’Europa ci chiede di invertire la rotta rispetto a questo inquinante. Una direttiva europea del 2016 ha ridotto del 40% il tetto delle emissioni consentite di Pm primario, oltre ad avere introdotto dei limiti per le emissioni di ammoniaca entro il 2030. “Se gli allevamenti non diminuisco le emissioni – precisano gli esperti – non rientreremo nei limiti europei per questo inquinante ed avremo problemi anche con i superamenti delle concentrazioni di Pm 2,5”.

IL PROBLEMA DEI CONTROLLI – “Non si tratta solo di un fenomeno relegato al Bacino Padano, ma con picchi anche al sud, come a Frosinone, Avellino, Napoli. Eppure, spesso sono gli stessi amministratori locali a non conoscere questo problema”, commenta Daniela Cancelli di Fondazione per lo Sviluppo sostenibile. Le Regioni, almeno quelle del Bacino del fiume Po, dal 2016 stanno cercando di trovare soluzioni. Le prime linee guida risalgono a due anni fa e prevedono il divieto di spandimento dei reflui zootecnici da novembre a febbraio (soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e Piemonte) e la copertura delle vasche di raccolta dei reflui. “Le Regioni stabiliscono questi divieti – spiega l’esperta – ma il problema sono i controlli. Il ministero dell’Ambiente dovrebbe elaborare delle linee guida a livello nazionale, perché lasciare le Regioni e i Comuni a gestire l’emergenza non è efficace”. Il problema non sono gli allevamenti, ma quelli intensivi. “È evidente come gli allevamenti intensivi siano la causa di pesanti ricadute sull’ambiente – spiega Federica Ferrario, responsabile Campagna Agricoltura di Greenpeace Italia – che vanno poi a influire anche sulla salute umana. Eppure, i soldi pubblici continuano a foraggiare questo sistema”. Il riferimento è ai finanziamenti della Politica agricola comune (PAC) “una voce non da poco nelle casse dell’Unione europea, capace di impegnare circa il 39% del bilancio Ue”. Una politica che sembra non fare distinzione tra aziende inquinanti o meno. Infatti, un report del 2018 di Greenpeace, ha mostrato come la PAC finanzi alcuni degli allevamenti più inquinanti d’Europa.

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