Nel nero che colora questo governo, tra le pose spesso sguaiate dei suoi rappresentanti, i pensieri e le parole vendute al mercato quotidiano della propaganda, in questa gran confusione cioè, si distingue – e non solo per la compostezza del suo linguaggio – Roberto Fico, il presidente della Camera.

Destinato a fare la parte del rappresentante inutile di una minoranza muta e imbelle nei Cinquestelle, quell’ala sinistra sempre più in difficoltà per un governo che la conduce dove non avrebbe mai immaginato di avventurarsi, Fico non si accontenta più di essere il testimonial dei perdenti ma esercita quel che appare un moto di prima resistenza contro la deriva leghista che Luigi Di Maio non riesce a fronteggiare.

Dei tre dioscuri pentastellati (oltre a Di Maio, Di Battista) Fico è quello meno popolare ma di sicuro appare il più affidabile, e non solo per la fortuna di ricoprire un ruolo istituzionale che gli impone continenza nei comportamenti.

Non è solo però questione di lessico, così avventato negli altri due, a volte così inutilmente violento, fuori misura.

Mai sarebbe venuto in mente a Fico di annunciare l’impeachment contro il capo dello Stato, un errore politico di Di Maio grossolano e ingiustificabile, oppure di mitragliare sconsideratamente, come accade a Di Battista, chiunque venga a tiro. Nè a Fico capiterebbe di utilizzare il linguaggio allusivo che il vicepremier muove ora agli oppositori interni (“non vorrei che ci fossero questioni legate ai versamenti che dobbiamo fare per gli alluvionati”) ora a quelli esterni (“ai giornalisti dico: siamo pronti a fare la legge sul conflitto di interessi”) come se il conflitto riguardasse questi ultimi e non gli editori.

Roberto Fico – per demerito altrui – è divenuto l’ultimo argine, e la sua parola, che ieri sembrava lieve come piuma, oggi pesa parecchio di più.

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