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Lo sport in Italia è comunista

Lo sport in Italia è comunista
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L’Italia è rimasto l’unico Paese con organizzazione “comunista” dello sport. Fino al 1989, caduta del muro di Berlino, si giustificavano gli insuccessi dello sport italiano criticando lo “sport di Stato” dei Paesi oltrecortina che primeggiavano in tutte le rassegna iridate. Poi, mentre il sistema sovietico si sfaldava allontanando lo Stato dalla gestione diretta di federazioni e atleti, in Italia si arruolavano, nei gruppi sportivi di ben sei corpi militari, anche le donne.

Gestione di Stato – In questi giorni il governo gialloverde ha deciso di esautorare il Coni, gestendo direttamente le risorse garantite dallo Stato, oltre 400 milioni di euro all’anno , che il Coni fino a oggi distribuiva alle federazioni per organizzare le diverse discipline sportive e preparare gli atleti. Consigli di amministrazione federali sinora eletti dalle società sportive che da domani saranno sempre più “nominati” dai partiti al potere. Oggi in Italia si sta strutturando lo sport sulla falsariga di quello un tempo appannaggio dei Paesi comunisti: finanziamenti pubblici direttamente alle federazioni e stipendio garantito agli atleti “militari”, uomini e donne, arruolati. Alla faccia della liberalizzazione! Ne beneficiano soprattutto gli azzurri delle discipline apparentemente più “povere” – sport invernali, scherma, nuoto, atletica leggera e pesante, canottaggio, arti marziali, lotta, etc – mentre sono esclusi gli sport di squadra come calcio, basket, pallavolo, hockey e anche ciclismo.

Abili e arruolati – Sono favorevole all’arruolamento dei talenti di 17/18 anni, perché ogni potenziale campione a quell’età necessita di almeno 4/5 anni di dedizione completa a un allenamento specifico per affrontare con successo la scena mondiale. E senza uno stipendio garantito, come quello ricevuto dal corpo militare, molti, soprattutto le ragazze, sarebbero costretti a lasciare lo sport per dedicarsi ad altra attività remunerativa. Non concordo invece sul fatto che prolunghino l’arruolamento anche quegli atleti che, grazie ai risultati, recuperano da sponsor laute risorse finanziarie, che si sommano allo stipendio militare. Standosene a casa senza alcun obbligo di caserma e di servizio. Unico vincolo: indossare la divisa in occasione dei ricevimenti ministeriali coperti da servizi televisivi per promuovere il gruppo militare di appartenenza. Sicuramente più proficuo per lo sport italiano se gli atleti finanziariamente autosufficienti fossero “dismessi” dai corpi militari sostituiti da altrettanti giovani che necessitano di quello stipendio per poter adeguatamente tentare la sorte nel mondo dello sport.

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