Si dice “vedi Napoli e poi muori”. Ci sono buone ragioni. I panorami incantatori, il Vesuvio, il tessuto urbano, la cultura e il folklore, la vivacità popolare ne fanno un posto senza eguali. Ben vengano dunque le iniziative che puntano a valorizzare questo luogo mirabile e la sua arte, anche quella musicale.

Dal 5 al 9 dicembre 2018 si terrà nel Conservatorio di San Pietro a Majella la prima International piano competition . The neapolitan masters, promossa dall’Associazione Mousikè – il cui direttore artistico è il maestro Luciano Ruotolo -, in collegamento con la prestigiosa Alink-Argerich Foundation. Giurati insigni valuteranno i giovani esecutori, facilitando l’avvio di brillanti carriere. Il concorso prevede tre sezioni: Junior, fino ai 13 anni; Young, fino ai 19; e The neapolitan masters prize per veri e propri concertisti tra i 16 e i 36. Per questi ultimi la prova eliminatoria avverrà online, attraverso un video.

Nella semifinale il programma sarà libero, ma ai partecipanti si suggerisce di includere un brano del presidente della giuria, il compositore e pianista napoletano Giuseppe Devastato. Anche per la prova finale il programma è a libera scelta, ma gli organizzatori consigliano di eseguire una composizione di musicisti napoletani dal Sette al Novecento. La sezione The neapolitan masters prize sarà trasmessa in streaming. Al vincitore saranno offerti concerti in Italia e nel mondo, la produzione di un cd, un contratto con un’importante agenzia cinese.

L’evento è lodevole: sarà un’occasione importante per la musica pianistica, per i giovani esecutori e per i contatti di Napoli col mondo musicale internazionale. Auguriamo pieno successo. La manifestazione mi offre il destro di un opportuno chiarimento terminologico. Si parla spesso di “scuola napoletana“. Sotto questa etichetta – che risale alla fine del Settecento – si cumulano compositori, musiche, fenomeni disparati. Giova distinguere.

Da un lato c’è una “scuola pianistica napoletana” che tra Otto e Novecento vanta pianisti famosi come Beniamino Cesi, Sigismund Thalberg, Achille Longo, Alessandro Longo, Vincenzo Vitale: col loro magistero hanno dato vita a un’illustre tradizione didattica. Di questa genealogia gli esponenti più prossimi sono, fra i tanti, concertisti come Aldo Ciccolini, Maria Tipo, Carlo Bruno, Bruno Canino, Michele Campanella, Laura De Fusco, Francesco Nicolosi. Questa tradizione, fondata sulla trasmissione consapevole e deliberata di tecniche, saperi, maniere esecutive da maestri ad allievi (che a loro volta diventano maestri), può legittimamente definirsi “scuola”.

È invece storiograficamente sospetto il concetto di “scuola” applicato allo straordinario rigoglio della vita musicale nel Settecento napoletano. È senz’altro vero che con i suoi quattro “conservatori” la capitale del Regno attirava frotte di giovani musicisti sia meridionali (pugliesi, calabresi, ma anche siciliani) sia settentrionali. Ma sostenere che a questa euforia didattica corrispondesse poi uno specifico stile “napoletano”, distintivo dei musicisti formatisi a Napoli, è un corto circuito logico stimolato più dall’amor di patria e dal mito della seducente città che non da un’analisi stilistica spassionata.

Paradigmatico il caso dei due Scarlatti. Il padre Alessandro (1660-1725) nasce a Palermo, si afferma men che 20enne a Roma ed è un artista completo quando viene chiamato alla corte vicereale di Napoli nel 1684; addirittura sottrae il posto al maestro onorario della cappella di corte, il 54enne Francesco Provenzale, napoletano verace. Alessandro non insegnò nei Conservatori di Napoli se non per pochi mesi, e la sua carriera si svolse in una spola continua fra Napoli, Roma e Firenze. Né la sua musica operistica fu la sorgente di una tradizione locale specifica. Suo figlio Domenico (1685-1757) è sì nato a Napoli, ma tutta la sua parabola artistica si dipana tra Roma, Lisbona e Madrid. E non si può davvero dire che lo stile ghiribizzoso e spiritato delle sue meravigliose Sonate per clavicembalo rechi un marchio “napoletano”, né ch’egli abbia influenzato i musicisti napoletani della generazione successiva. Semmai la sua impronta si rileva, due secoli dopo, in un pianista come Alessandro Longo, che realizzò la prima edizione delle Sonate scarlattiane.

Dunque nel Settecento, se con “scuola” alludiamo alla presenza di istituti di formazione professionale, allora i quattro Conservatori giustificano l’etichetta. Se invece la intendiamo come contrassegno di un riconoscibile stile “napoletano”, la realtà è assai più evanescente. La persistente mitologia di una presunta “scuola napoletana” del Settecento è stata del resto sfatata fin dagli anni 70 da studiosi di spicco come Francesco Degrada, Renato Di Benedetto, Helmut Hucke, Michael Robinson e altri ancora. Godiamoci dunque le peculiari bellezze di tanti compositori più o meno “napoletani”, senza troppo curarci delle etichette di comodo invalse nell’uso.

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