La Mongolia è affascinante: 65 milioni di animali (tra cavalli, cammelli, yak, mucche, capre e pecore) e neppure 3 milioni di abitanti, oltre la metà residenti a Ulaan Bataar, la capitale più fredda e inquinata al mondo, nel rigidissimo inverno. Puoi viaggiare ore e ore senza incontrare esseri umani, e passare anche un’oretta in coda, in piena estate, per andare in centro la sera.

Affascinante è anche per il suo curioso parco automobilistico, affollato di Toyota Prius usatissime e solcato ancora, lontano da città e paesini, da un’infinità di pullmini Uaz di origine militare, uno dei lasciti dall’abbraccio – molto soffocante – dell’Unione Sovietica. Il mio viaggio è durato tre settimane, durante le quali per molte ore al giorno ho vissuto in simbiosi con le vere regine di steppa e deserto mongoli: le Toyota Land Cruiser, naturalmente tutt’altro che di primo pelo.

Ve le presento: quella di Bayasgalan – estroverso pennellone che ha fatto anche il sushi-chef negli States… – è del 1999 ha il motore V8, il cambio automatico, la guida a destra e oltre 300 mila km sul gobbo. Quella di Amga -ex lottatore che ha cacciato i lupi, mangiandone il cuore e bevendone il sangue – ha percorso più o meno gli stessi km, ma è del 2000 e la guida a sinistra, perché viene dagli Usa. Consumano 14 litri di benza ogni 100 km su asfalto 20/22 litri in fuoristrada. Badrakh, ingegnere minerario, invece guida una Land Cruiser ma col motore V6 a gasolio, il cambio manuale e risale addirittura al 1992. Che succhia, “combined”, 14 litri per 100 km.

Il nostro gruppetto, cinque italiani, ha così passivamente ma entusiasticamente macinato circa 3400 km, di cui oltre 2 mila in fuoristrada. E che fuoristrada: lunghi tratti di deserto e di steppe senza neppure la pista tracciata; vallate costellate di sassi appuntiti come le lance dei guerrieri di Gengis Khan; fiumi e torrenti da guadare con cautela ma anche tranquillità grazie agli immancabili e utilissimi snorkel.

Abbiamo viaggiato in coppia (a un certo punto, la diesel di Badrakh ha preso il posto di quella di Baysgalan) ma spesso i driver prendevano “strade” diverse, per poi ritrovarsi magari nella valle successiva e inseguirsi, talvolta dribblando mandrie di yak o cammelli o marciando affiancati ai guizzanti cavallini del Nord. Quelli che vivono nel meraviglioso deserto dei Gobi, in estate invece non sprecano una stilla d’energia. Acqua e vegetazione latitano e ogni movimento di troppo è uno spreco che rischia di essere letale.

Una tappa-simbolo del tour è quella per arrivare alle splendide dune di sabbia di Khonghor (da salire a piedi nudi, gli ultimi duecento metri a quattro zampe!) partendo dalla valle di Yol dove ci sono gli avvoltoi e un ghiacciaio a cielo aperto: 180 km di sterrato a volte infernale, dove è un miracolo tenere i 30 orari di media. E una volta arrivati al camp, una bella oretta in sella ai cammelli battariani mongoli: passeggiatina condita peraltro da una micro-tempesta di sabbia.

Uscendo dal deserto ci siamo fermati alle rovine del monastero di Ongi, quasi interamente distrutto dai sovietici, che volevano estirpare il buddismo dai cuori dei Mongoli. Tostissimo anche il tratto per giungere nella zona del vulcano di Khorgo. Rocce nere aguzze e sparse ovunque, manco fossero chiodi miguelitos per fermare i narcos mexicani, e impegno straordinario per i nostri autisti sempre allegri.

Abbiamo sempre dormito nelle gher, le celebri tende circolari protette dal feltro e riscaldate – talvolta – dalle rudimentali stufe che le surriscaldano in un attimo, e a Ulaan Bataar sono tra le principali colpevoli della mega-pollution. E nelle stesse tende abbiamo mangiato carne di yak, pecora, capra, mucca, cammello, dentro maxi porzioni di zuppe e paste spesso cucinate dalle ospitali donne nomadi. Nella capitale e nel vicino parco Terelj abbiamo girato con una vecchia Prius pagata 4 mila dollari, due anni fa, dal nostro autista “urbano”. Ed è curioso parecchio anche il mercato dell’auto, in Mongolia. Salta infatti immediatamente all’occhio, dopo qualche km a spasso per la capitale, l’anomala presenza proprio di Toyota Prius, specialmente quelle della prima serie, molte delle quali ormai maggiorenni.

Mi sono detto: bizzarro, questa è una città ultrainquinata eppure vanno forte le ibride. Sono bastate due chiacchiere con qualche proprietario di Prius per svelare l’arcano. Il rispetto per l’ambiente non c’entra granché: le vecchie Prius arrivano a prezzi bassi dal Giappone, che è felice di passare ad altri il problema dello smaltimento delle batterie e sono fenomenali, mi hanno detto ben cinque autisti di Prius su cinque, nelle partenze al freddo.

Quando il termometro si inabissa e le costosissime Range Rover o Mercedes Classe G fanno magari le bizze, il sistema di avviamento delle Prius non perde un colpo, giurano. Ed è questa la principale ragione d’acquisto. Qualcuno ricorda anche il ridotto importo del bollo e della assicurazione obbligatoria, ma nessuno se le compra per questo motivo.

Il fenomeno ha dato vita a una micro-economia che ruota intorno alla più diffusa delle ibride: in pochi anni, sono sorte in Mongolia centinaia di officine meccaniche che si occupano solo di Prius. Un successo che non fa tuttavia sorridere troppo la Toyota: mentre spariscono in un amen le vecchie Prius da poche migliaia di dollari esportate dal Giappone, languono le vendite delle nuove, il cui listino va dai 22-23 mila dollari in su. Nel 2016, per dire, a fronte di oltre 20 mila importazioni di Prius di seconda mano si sono avute poche decine di immatricolazioni di vetture nuove di zecca.

Ci sarebbe molto altro da raccontare ma mi fermo qui, con uno spassionato consiglio: se avete un po’ di spirito di adattamento, andatevela a vedere la Mongolia. La sua storia è incredibile, gli abitanti delle campagne sono simpatici e gentili, la capitale riserva interessanti sorprese e fortissimi contrasti. Un Paese semplicemente fantastico.

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