Il 7 luglio quella che si considera la sinistra italiana, che tradotta in termini moderni è la componente liberal, progressista, anti-Salvini e così via del Paese, ha indossato una maglietta rossa per sensibilizzare alla crisi dei migranti l’altra fetta dell’Italia. Ma è evidente che il modo in cui l’attuale governo sta gestendo questa crisi in fondo non dispiace agli italiani. E infatti l’accordo stipulato a Bruxelles dieci giorni fa non è stato contestato dalla stampa o dall’opposizione (quella che dovrebbe esserci sempre in un Paese democratico). In realtà l’accordo era uno specchietto per le allodole, volutamente ambiguo per poter essere manipolato dai vari leader che lo hanno firmato.

Esiste un’espressione anglosassone che ne riassume bene la sua ambiguità “il diavolo si nasconde nei dettagli”. E infatti, mentre sulla carta si dice che è stata trovata una soluzione, in pratica non si sa come verrà applicata. Il punto cruciale è cosa fare dei migranti che riescono a raggiungere il suolo europeo, come stabilire chi ha diritto all’asilo, ma soprattutto dove farlo? Senza parlare poi dei costi dell’assistenza e dei rimpatri. L’accordo prevede centri di accoglienza volontari, in altre parole saranno le nazioni a decidere se vorranno aprirli oppure no sul loro territorio e già diverse hanno detto che non succederà a casa loro.

I tedeschi, come al solito, hanno suggerito uno stratagemma: i rifugiati verranno internati in una striscia di territorio al confine tra Germania e Austria che verrà considerata né territorio tedesco né austriaco, per poter negar loro ogni pretesa di diritto legata alla territorialità. Bruxelles ha già storto la bocca, ma l’idea potrebbe essere supportata da altri leader. In fondo se i migranti non possono essere fermati alle porte dell’Europa meglio radunarli in centri ad hoc in Europa da dove poterli rimpatriare. E così nel vecchio continente torna l’idea di costruire campi dove internare gli altri, i diversi, i migranti, i rifugiati, gli extra-comunitari.

La crisi dei migranti, l’ennesimo terremoto politico e sociale che scuote l’Unione europea, mette a nudo nuove realtà nazionali e nazionaliste che nulla hanno a che vedere con il sogno di un’Europa unita e pacifica ma che si riallacciano a sentimenti manifestati nel periodo tra le due guerre. Chi lo avrebbe detto che saremmo scivolati di nuovo lungo questa china? Tra le metamorfosi più preoccupanti c’è la progressiva scomparsa della vecchia Germania, apertamente liberale e anti-razziale, e l’emergere di una nazione molto più ricca degli altri Stati membri dell’unione, intenzionata a difendere i privilegi conquistati negli ultimi decenni.

Lo scontro al vetriolo sulla questione dei migranti, come lo ha definito la stampa anglosassone, tra la cancelliera Angela Merkel e il suo ministro degli Interni, Horst Seehofer, e il compromesso raggiunto confermano queste riflessioni. A Bruxelles si fatica a capire cosa stia realmente succedendo a Berlino, possibile che la Merkel abbia abbandonato la politica del benvenuto lanciata nell’estate del 2015 per difendere la propria poltrona? L’internamento dei migranti fa paura, specialmente se messo in relazione alla politica delle frontiere aperte promossa dall’Unione e difesa sempre dalla Merkel. Certo è che se non si vuole controllare chiunque cerchi di varcare il confine tra l’Austria e la Germania – e cioè porre fine a Schengen – a chi lo attraversa verranno necessariamente applicate metodologie pericolose, come il profiling razziale, in altre parole chi ha gli occhi azzurri ed i capelli biondi non verrà fermato alle frontiere mentre chi è di colore lo sarà.

La storia si ripete? Speriamo proprio di no. Anche sul piano economico la nuova Germania sembra allontanarsi sempre di più dall’Unione, secondo uno studio condotto dalla prestigiosa think thank, Bruegel, è infatti tra le nazioni che meno si conformano alle raccomandazioni e direttive specifiche della Commissione europea. In altre parole, quasi sempre Berlino le ignora. E questo avviene a 365 gradi, dalle misure per aiutare ad integrare i lavoratori migranti fino alle linee guida sulle priorità degli investimenti pubblici.

Molte delle raccomandazioni di Bruxelles fanno parte di una politica di lungo termine intenzionata a convincere Berlino a far gravitare la domanda interna e gli investimenti pubblici per ridurre il surplus delle partite correnti. È  questa una crociata che l’Unione europea combatte dalla fine degli anni Novanta contro i politici tedeschi che perseguono invece la filosofia del risparmio e, in fondo, anche contro gran parte della popolazione che vede il surplus delle partite correnti non come un problema ma come una virtù. Un braccio di ferro che nell’era del populismo moderno rischia di danneggiare gli equilibri politici del vecchio continente.

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