A una settimana dall’assemblea nazionale che sancirà le tappe verso il congresso Nicola Zingaretti – riletto quattro mesi fa a capo della Regione Lazio – si candida a guidare il Pd, partito da riportare in carreggiata dopo i rovinosi deragliamenti delle ultime competizioni elettorali. In caso di elezione annuncia l’intenzione di restare in Regione, o almeno ci proverà. Dichiara guerra ai sovranisti, specie alla Lega che è “forza autoritaria, razzista e xenofoba”,  scommette sulla prossima “disarticolazione” del Movimento Cinque Stelle. L’intervista al Corriere con cui scioglie la riserva, se mai c’è stata, è un battesimo del fuoco. Zingaretti prende una posizione netta sul tema che agita la sinistra, cioè il superamento del Partito democratico con la fondazione di un soggetto politico nuovo che interrompa il filotto di sconfitte e scissioni che ne hanno scandito la vita negli ultimi anni, sia in posizione di governo che all’opposizione. “Il mio sarà un partito nuovo”, dice, senza specificare quanto e come cambierà. Ma fa capire che Renzi potrà contribuire di lato “se si sentirà di farlo, penso e spero che non se ne vada”, dice ad Aldo Cazzullo. Come dire#matteostaisereno.

L’a spinta aggregatrice intorno al governatore, così la mette lui, dovrebbe essere un’opposizione che si fa alternativa alla destra, una destra “diversa dal passato, molto più decisa, marcata ed estremista rispetto a quella del ’94. Non è più la Lega di Bossi, circoscritta geograficamente e concentrata sul federalismo”. Quella di Salvini è un fenomeno nuovo “che già si manifesta nelle forme più indecenti, con la chiusura dei porti a una nave con 700 persone a bordo, tra cui donne e bambini”.

Non più clemente il giudizio sui Cinque Stelle. Nelle parole del candidato segretario sono “un corpaccione dove c’è dentro un po’ di tutto. Prevale una protesta, spesso assai giustificata, verso le istituzioni italiane ed europee così come sono oggi, i partiti che sono diventati macchine elettorali. Da questa contraddizione deve scaturire una nostra opposizione intelligente, che tenda a disarticolare, a convincere, a spostare orientamenti dentro quell’elettorato”. Perché questa è la convinzione di Zingaretti. “La loro identità ha un limite che definirei genetico: una lettura della società che parte dalla presunzione di rappresentare indistintamente i “cittadini”. Va bene per raccogliere consensi, ma è letale al momento del governo. I “cittadini” non esistono, perché è “tra” i cittadini che vivono le disuguaglianze. E devi scegliere”.

Lo sguardo passa al futuro della sinistra che deve passare per il passato, mai davvero preso in carico per un’analisi critica delle scelte perdenti compiute dalla sua classe dirigente. La domanda a cui appendere questa riflessione è legate alle cose di sinistra fatte da chi si definisce tale. “La sinistra ha accettato il terreno del pensiero unico: mercato, meritocrazia, competizione, narcisismo, consumismo. Al massimo è riuscita a declinare un liberismo progressista. Oggi la spinta liberista ha portato al fallimento delle società occidentali; e anche la sinistra si è trovata senza la terra sotto i piedi. Non si possono riproporre vecchie ricette. Ma l’innovazione — parola inflazionata — va indirizzata verso la giustizia, contro le disuguaglianze. Altrimenti i frutti del crollo del liberismo vengono raccolti dalle forze populiste, di destra, antieuropee. E per l’Italia questo è particolarmente pericoloso”.

Perché? “Perché l’Italia – risponde Zingaretti – ha una democrazia e una Repubblica fragili. Quelli che si proclamano sovranisti boicottando l’Europa, in realtà portano la sovranità italiana al massacro: l’Italia senza Europa sarebbe terra di conquista delle nuove, grandi, aggressive potenze del mondo. Solo l’Europa può salvarci”.

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