Riccardo Pizzorno per @Spazioeconomia.net

Dazio chiama dazio. Questa dovrebbe essere l’esperienza che il passato ha consegnato all’America e ai Paesi più industrializzati che devono far di conto con il saldo della bilancia dei pagamenti.

Rimandiamo la memoria agli anni 30 e allo Smoot-hawley tariff act, provvedimento suggerito da Reed Smoot – presidente della commissione finanze del Senato –  e promulgato dal presidente Herbert Hoover malgrado i dubbi sulla sua efficacia. Per salvare posti di lavoro e industrie americane si pensò di introdurre in una notte dazi su oltre 20mila prodotti stranieri fino al 60% del prezzo, in alcuni casi quadruplicandoli. Le contromisure non si fecero attendere, con una guerra commerciale di tutto il mondo contro gli Usa e con Canada, Francia, Impero britannico, Italia e Germania che provvidero subito a introdurre misure di ritorsione.

Bastarono tre anni per vedere gli effetti di queste misure, con le importazioni degli Stati Uniti crollate del 66% e le esportazioni ridotte del 61%. Il tasso di disoccupazione americano addirittura triplicò dall’8% al 25%. Oltre agli ovvi risvolti negativi sul commercio mondiale.

Tutto durò fino al 1934; non appena Franklin Delano Roosevelt diventò presidente, infatti, sostituì il provvedimento con accordi bilaterali e conseguenti riduzioni delle tariffe daziarie.

Non paghi dell’esperienza, gli americani tentarono nel 2002 a introdurre dazi protezionisti, con George W. Bush alla ricerca di una difesa dei produttori americani di acciaio. Provarono solo però, perché la marcia indietro fu repentina non appena l’Ue mise a punto una serie di contromisure volte a colpire i prodotti Usa, prevedendo dazi che andavano fino al 100% nel caso di succhi di frutta, t-shirt e slip. Anche altre potenze siderurgiche in giro per il mondo risposero con contromisure per oltre 2 miliardi di dollari, dirette a colpire i commerci di frutta, legumi, tessili, scarpe, moto. A brevissimo giro di posta – nel dicembre 2003 – Bush ritirò i dazi sull’acciaio.

Oggi il presidente Donald Trump ha deciso di introdurre nuove misure protezioniste con dazi del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% sull’alluminio, in barba al Wto e alle procedure negoziali previste per la modifica degli assetti tariffari tra le nazioni. Ufficialmente per proteggere la sicurezza nazionale e gli interessi strategici americani, probabilmente per riequilibrare una bilancia dei pagamenti che vede le uno sbilancio di quasi 700 miliardi.

Le barriere commerciali potrebbero apparire come un gioco a somma zero: le minori importazioni sarebbero sostituite da produzioni domestiche, magari accompagnate da un aumento di capacità produttiva con incremento della produzione industriale e dell’occupazione. Ma sappiamo che così non sarà per molti motivi, i primi tra i quali le ritorsioni tariffarie degli altri Paesi oltre che l’aumento di costo (o il peggioramento di qualità) dei prodotti che non si riescono a produrre all’interno della nazione.

L’Italia da queste guerre commerciali corre il rischio di subire grandi perdite, dato che il nostro fatturato con l’America ammonta a circa 40 miliardi e i prodotti individuati per le contromisure sono anche parte delle nostre migliori produzioni. La tabella seguente riporta le principali voci di export.

L’amministrazione Trump comunque non è l’unica cattiva, in quanto l’assetto attuale non presenta assenza di dazi nel commercio internazionale né vede l’America tra i maggiori impositori. Secondo l’Omc (Organizzazione mondiale del commercio), infatti, il dazio medio applicato dall’Unione europea era del 5,3% nel 2016, ben superiore al 3,5% degli Stati Uniti, al 4,2% del Giappone, al 4,1% del Canada e al 2,7% dell’Australia. Tariffe più alte si troverebbero solo applicate da Paesi emergenti dalle economie ancora fragili.

Ricordiamo a margine che la Comunità economica europea (Cee), con l’articolo 9 del suo atto costitutivo, impose il divieto per gli scambi di merci fra gli Stati membri di dazi oltre che di qualsiasi altra tassa di effetto equivalente, mentre gli art. 18 e seguenti previdero la fissazione di una tariffa doganale comune (Taric) il cui importo è ora appannaggio della Comunità europea a titolo di risorsa propria.

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