di Giulio Scarantino

Il 16 marzo di 40 anni fa veniva rapito Aldo Moro e con lui la speranza di un compromesso tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano. Il compromesso storico. Alle generazioni successive, come la mia, è rimasto solo il racconto di un’Italia pronta a cambiare, del tentativo della politica di redimersi verso un sacrificio per il paese. Racconto senza un finale, stroncato sul nascere come un cinico film di Stanley Kubrick. Un racconto che lascia l’amaro in bocca di ciò che non succede, la nostalgia di un giorno non vissuto. La certezza di un’Italia che non è stata e non sarà. La malinconia di un paese diverso da quello che sarebbe potuto essere.

Nel racconto che scorre di generazione in generazione i protagonisti, le figure di Berlinguer e Aldo Moro, acquisiscono familiarità e connotati di eroi del nostro tempo. Figure che, nello stesso tempo, appaiono lontane grazie alla rapidità della politica di rimuovere quel fatto e quel momento storico. A quella parentesi, a quel frammento di intesa, è come se la politica avesse voltato le spalle verso un percorso diverso, incapace di sopportare l’assenza di quelle due figure straordinarie. Come se tutto il resto della politica, non potendo ripetere lo spessore di quelle due persone, abbia deciso di percorrere una strada diversa, insabbiando quel momento e continuando un declino arrivato all’apice nei giorni nostri.

La nostra generazione è figlia dell’era del berlusconismo, della lotta al diverso: dalla paura dei comunisti al potere alla lotta contro il padrone Berlusconi, fino ad arrivare oggi alla lotta al populismo e alla lotta contro l’establishment. Per sempre lotta. Ad ogni costo contrapposizione. Da quel frammento della politica che unisce ad oggi con una politica che divide eternamente.

A quarant’ anni dal rapimento, le immagini di oggi raccontano la radicale differenza tra l’Italia che poteva essere e che non è. Il dato più evidente a quasi due settimane dal voto è l’incapacità di tutte le forze politiche di dialogare: elemento comune di tutte le dichiarazioni dei leader, anche quelle teoricamente dirette agli altri partiti, è che sono destinati ai suoi elettori. L’obiettivo è rassicurarli o incitarli, raggiungerne di nuovi in un’eterna campagna elettorale. Una lotta continua tra partiti, all’interno di coalizioni o partiti stessi.

I partiti smettano di specchiarsi, di curare la propria immagine, di affermarsi diversi dall’altro e autoreferenziali in una costante attenzione alle strategie comunicative. Tutte le forze politiche in questi giorni hanno rivendicato di svolgere autonomamente il loro ruolo, chi all’opposizione e chi al governo: con l’unica preoccupazione di curare l’apparenza: il Movimento Cinque Stelle ripete come un mantra che ha il diritto a governare, senza però fare un reale passo indietro rispetto alle posizioni inamovibili prese per ottenere una maggioranza in Parlamento. Allo stesso modo il Partito Democratico pensa già all’elisir di opposizione, concentrandosi sulle faide interne e dimenticandosi di essere la seconda forza politica del paese. Il centrodestra che si sfalda di fronte a personalismi e brame di potere, con i leader dei singoli partiti ad arroccarsi su posizioni nell’interesse del proprio consenso.

La politica che divide e si divide ininterrottamente, al contrario di quel famigerato compromesso. Questi giorni sono l’apice, come la regola del contrappasso, di quell’inesorabile percorso intrapreso quarant’anni fa: quando ad essere sequestrato e poi ucciso non è stato solo un politico della Democrazia cristiana, ma un’idea di politica. Un’idea di politica troppo grande per essere perseguita dagli uomini di oggi.

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