La nomina di Palermo come capitale italiana della cultura 2018 non è un riconoscimento alla grande bellezza di una città di 2500 anni. Non sono lo splendore della Cappella Palatina o la magnificenza del Teatro Massimo – per tracciare un arco di 750 anni di ingegno e bellezza – ad essere premiati. Certo, il patrimonio architettonico, storico e monumentale di Palermo sopravvissuto alle bombe del ’40-’43 e alla, più devastante, aggressione mafiosa alla città rendono Palermo unica. Ma una capitale, sia anche “della cultura” e per un anno, non è fatta da solo da pietre e non è fatta solo di passato. Deve, per essere tale, parlare al futuro, dare un esempio, proporsi come modello.

Palermo 2018 fa questo. Lo fa con una forza capace di superare i disservizi (che ci sono) e tutti i problemi di una grande città: emarginazione, povertà, sacche di malaffare e bruttezze. Una forza che viene dalla storia di Palermo e che neppure la sporcizia, metaforica e non, può imprigionare.

In un epoca di rabbia e paura Palermo proietta una speranza, un’ipotesi di un altro modo di concepire il rapporto con la diversità. La stessa storia che ha forgiato i palazzi arabo-normanni e i tratti somatici dei suoi abitanti. Fino a ritornare nei cognomi dei suoi abitanti e nei nomi delle strade cittadine.

Il titolo di capitale della cultura non è – quindi – una medaglia per la città. Ma una dimostrazione prorompente di vitalità. Un grido in un mondo spaventato e arrabbiato. Ed è questo che consente a Palermo di essere, oggi, modello e speranza.

Una città che si è saputa aprire e non semplicemente accogliere. Una città che ha voluto recuperare se stessa dopo le bombe di mafia e il buio di anni in cui ha subito sfregi tali da far crollare la speranza, in cui si rubavano le opere del Caravaggio e si procedeva a far saltare in aria con la dinamite le ville liberty. Anni in cui la mafia ha provato ad uccidere l’identità stessa di Palermo.

Palermo ha resistito. Ha trovato la forza per ribellarsi, in parte almeno. Ed ha trovato ulteriore forza per respingere xenofobia e razzismo.

Come aver paura dello “straniero” quando si fa la spesa in un mercato erede diretto del suq? Come sentire “diverso” chi già nel cognome porta qualcosa di familiare? Come sentirsi minacciato da chi è erede delle stesse mani che realizzarono i mosaici delle chiese cittadine e delle eleganti forme della cattedrale?

Anche in questo Palermo, più di tante altre città di questo paese, assume un ruolo non formale di capitale culturale. Di una cultura proiettata ad un mondo nuovo, dove non sono solo le architetture a determinare una visione e una prospettiva. Un’ipotesi, quindi, alternativa al ritorno all’abominio della “razza” e di una inesistente purezza genetica. L’altro come valore, la diversità come motore per costruire bellezza e cultura. Questo significa essere capitale della cultura. E di questa cultura, fatta di speranza e panelle, di visione e mosaici dorati questo paese ha, oggi più che mai, bisogno.

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