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Antifascismo verbale a impatto zero

Antifascismo verbale a impatto zero
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Nell’immaginario della mia fanciullezza c’era uno zio alla testa della formazione partigiana “Garibaldi” (la divisione Coduri), attestata nell’entroterra ligure di Levante, che già nei primi mesi del 1945 aveva scacciato armi in pugno nazisti e repubblichini da Chiavari e dalla riviera.

Nonostante (o a causa di) questo retaggio familiare, nutro immediata insofferenza per le modalità puramente retoriche e verbali con cui si pretenderebbe di contrastare l’onda montante dell’estrema destra, che si richiama simbolicamente (chissà quanto consapevolmente) ai simboli del ventennio fascista. La crescente occupazione di spazio sociale da parte di sempre più tracotanti gruppi/gruppuscoli che propugnano e praticano la violenza nera.

Nella mia città (Genova) e nella mia regione (la Liguria), il ricorso al luogo comune da parte delle residuali e ormai canute burocrazie antifasciste si illude di sconfiggere l’epidemia, che infetta soprattutto le periferie, al canto di Bella ciao e con qualche convegno politicamente corretto. La stampa nazionale mainstream inneggia alla (doverosa, che diamine!) presa di posizione antifascista del presidente della Repubblica, come se si trattasse di una mossa risolvente.

Salvarsi l’anima con parole consumate da oltre mezzo secolo d’abuso? Nel frattempo minima, per non dire nulla, è l’attenzione alle ragioni che spingono due soggetti significativi – le nuove generazioni e le aree del disagio – alla sordità nei confronti di tale repertorio teatrale; oggetto di giudizi che vanno dall’insignificanza al fastidio.

Il rito antifascista non parla più ai giovani perché considerato l’ennesima mascheratura di una classe politica che nasconde il proprio incredibile cinismo carrieristico nei panni di un trionfalismo da parata domenicale. Tanto che i valori della Resistenza sono stati prosciugati dalle pratiche concrete che li smentiscono. Valori che potranno essere riproposti, seppure in forme aggiornate, soltanto ritrovando lo spirito che ormai 70 anni fa li eleggeva a principi fondativi della nostra Carta Costituzionale. Un’inversione etica presupposto di quella palingenesi generale che nulla fa ritenere all’orizzonte. Tanto meno la campagna elettorale in corso, oscillante tra miserabilità e ridicolo.

Forse (in teoria) più praticabile potrebbe essere contrastare la strumentalizzazione – fatta da imprenditori della provocazione tipo Casa Pound – del degrado materiale che riduce a brandelli la comunità in quartieri morsi dall’impoverimento. La disarticolazione della convivenza indotta dal modello socio-economico fondato sulla precarietà, che in questi anni ha contagiato l’Europa e devastato i paesi mediterranei.

Anche in questo caso le belle parole diventate rumore non servono a nulla. Occorrono aiuti concreti e azioni a tutela della sopravvivenza; dal diritto a un’abitazione degna alla salute, a strutture educative già per la prima infanzia. Dunque, mosse politiche che diventino strategia, facendo propria la vecchia parola d’ordine di Ernesto Rossi “abolire la miseria”. L’opposto dell’attuale depistaggio nelle aree dimenticate favorendo guerre tra poveri, indigeni contro immigrati.

Azioni da accompagnare con militanza di territorio da parte della società civile, per non lasciare il campo della marginalizzazione solo all’utilizzo missionario delle organizzazioni vaticane (ebbene sì, sono un vecchio anticlericale) e alla propaganda ideologica di quelli con svastiche e croci runiche (ebbene sì, non sopporto il nero).

In questa logica un mese fa – nel mio piccolo – avevo indetto una riunione di giovani concittadini attivi nel volontariato, proponendo piani articolati di contrasto dell’ultradestra intervenendo con azioni di cura e assistenza. Mi hanno ascoltato, hanno assentito, ma poi mi hanno fatto sapere di essere in altre faccende affaccendati.

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