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Sinai, un conflitto oscurato

Sinai, un conflitto oscurato
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La strage di venerdì alla moschea del villaggio di Bir al-Adb, nel Sinai settentrionale, è il più grave attentato contro i civili compiuto nella storia dell’Egitto e segna nel modo più drammatico possibile un salto di qualità nel conflitto tra i gruppi armati islamici che operano nella penisola e le forze di sicurezza egiziane.

Se in questi anni a essere prevalentemente colpiti erano, da un lato, soldati e poliziotti e, dall’altro, persone sospettate di far parte dei gruppi terroristici, questa volta le vittime – oltre a 128 feriti – sono 305 persone del tutto estranee al conflitto in corso, descritte come sufi appartenenti a una tribù fedele al regime e dunque, nell’aberrante logica religiosa-militare dell’estremismo armato sunnita, “eretici” e “collaborazionisti”.

Per i dettagli sulla reazione “brutale” e “col pugno di ferro” annunciata dal presidente al-Sisi, dovremo basarci sulle informazioni ufficiali. Nel nord del Sinai è in vigore un completo black-out informativo e la regione è off-limits per i giornalisti indipendenti.

Proprio del conflitto nella regione e del suo impatto sulla popolazione civile si occupava Ismail al-Iskandarani, che mercoledì 29 novembre arriverà al secondo anno di detenzione preventiva, il massimo stabilito dalla legge egiziana (che però viene spesso ignorata, come nel caso di Mahmoud Abu Zeid).

Collaboratore di portali online quali Mada Masr e Assafir al-Arabi e autore di saggi e ricerche (qui un suo testo del 2014)  al-Iskandarani è stato arrestato il 29 novembre 2015 all’aeroporto di Hurghada di ritorno da Berlino, ultima sede di una serie di conferenze europee cui aveva preso parte.

Due giorni dopo, nel corso del primo interrogatorio, gli è stato chiesto cosa pensasse della situazione politica in Egitto e degli sviluppi nel Sinai del Nord. Hanno passato al setaccio la sua vita online, controllando contatti, scambi di mail e bozze di testi.

Da allora, al-Iskandarani è in carcere con l’accusa di “appartenenza a un gruppo illegale” (ossia, la Fratellanza musulmana) e di “pubblicazione di informazioni e notizie false”.

Secondo l’avvocato Mohamed Eissa, del Centro egiziano per i diritti economici e sociali, che ha seguito dall’inizio il caso, la pubblica accusa non è stata in grado di esibire una sola prova che possa giustificare la prolungata detenzione di al-Iskandarani.

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