L’attentato contro la moschea di Bir al-Adb, oltre ad essere il più grave degli ultimi anni contro la popolazione civile in Egitto, segna un nuovo colpo contro la politica securitaria del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Nonostante ad ora non ci sia alcuna rivendicazione, gli analisti puntano il dito sullo Stato Islamico, il cui nucleo più strutturato, il gruppo Wilayat Sinai, la Provincia del Sinai, è presente da tempo nel nord della penisola, per l’esattezza nella porzione di territorio che da Arish arriva sino al valico di Rafah.

I fedeli rimasti uccisi nell’attentato terroristico sono infatti sufi, musulmani che praticano una forma mistica dell’Islam, considerati eretici dalla parte più ortodossa dei musulmani sunniti, e abitano per la maggioranza il villaggio di Bir al-Adb. Negli ultimi mesi i militanti di WS avevano già attaccato l’area, uccidendo alcuni abitanti.

Lo Isis aveva già massicciamente colpito i sufi in diversi paesi mediorientali mentre lo scorso gennaio sulla rivista Rumiya, uno dei magazine di propaganda dell’IS, un anonimo emiro aderente a Wilayat Sinai dichiarava in un’intervista di 4 pagine che i sufi sono uno dei peggiori mali dell’Islam.

Sino ad oggi l’attacco con il numero di civili più alto era stato l’abbattimento, il 31 ottobre 2015, del jet russo partito dalla località turistica di Sharm elSheikh che aveva provocato la morte di tutti i 224 passeggeri a bordo.

Il gruppo estremista dall’inizio di quest’anno ha avviato anche una campagna contro i cristiani culminata contro le bombe alle due chiese di Tanta e Alexandria lo scorso aprile. In questa regione, Isis non ha perso né forza né territorio nonostante i proclami del governo e l’uccisione del suo leader Abu Duaa al-Ansari nell’agosto del 2016. Ciò nonostante restano poco chiare la struttura e la gerarchia dell’organizzazione, che secondo gli esperti continua a contare su circa 1000 miliziani nella penisola. Wilayat Sinai ha dimostrato di essere capace di sferrare attacchi sempre più complessi e in tutte le zone del paese.

Ma è soprattutto la penisola del Sinai a rappresentare, oggi, una sorta di buco nero in grado di mettere in ginocchio la propaganda di governo del presidente di Abdel Fattah al-Sisi che sulla lotta al terrorismo ha costruito la scalata al potere dopo il colpo di stato contro il presidente dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi e la vittoria alle presidenziali del 2014.

A nulla sono serviti la campagna militare «Il diritto dei martiri», lanciata nel settembre del 2015, che ha portato anche alla distruzione e all’allagamento dei tunnel al confine con Gaza e il black out mediatico imposto ai giornalisti. Dal 2013 è stato infatti vietato l’accesso ai corrispondenti stranieri mentre i reporter locali sono costantemente sotto minaccia da parte delle autorità. “I militari negano l’ingresso a giornalisti e ricercatori e evitano gli spostamenti dei residenti che abitano le zone che vanno da el-Arish al confine con la penisola di gaza”, spiega Allison L. McManus, direttore della ricerca del Tahrir Institute For Middle East Policy. “Tutte le persone che si occupano della penisola sono soggette a minacce da parte della autorità di sicurezza, alcune sono sotto processo. Inoltre, le leggi anti-terrorismo egiziane prevedono pene molto dure per chi entra in contatto con persone che dicono cose che divergono dalla versione governativa”.

L’attentato di oggi dimostra dunque che i 90 chilometri che separano la cittadina di al-Arish dal confine restano la croce del regime di al-Sisi. Un’area da sempre fuori controllo e, accusano i rappresentanti della popolazione locale, abbandonata dallo stato. A controllare l’area restano i residenti locali, popolazioni beduine che da sempre sono soggette a infiltrazioni estremiste e al traffico organizzato di armi, droga e persone.

Dopo gli attacchi tra il 2004 e il 2006 sul Mar Rosso a Taba, Sharm e Dahab, cittadine turistiche nel sud della penisola, l’allora presidente Hosni Mubarak, coadiuvato anche dal vicino governo israeliano, diede vita a una campagna che permise alle autorità di ristabilire parzialmente il controllo della zona. Ma la rivoluzione del 2011, che aveva provocato un nuovo momento di instabilità, e il ritiro delle forze di sicurezza egiziane dai territori al confine con la striscia di Gaza hanno incentivato la nascita di nuovi gruppi come Ansar bayt al-Maqdis (che nell’autunno del 2014 ha poi giurato fedeltà allo Stato islamico cambiando appunto nome in Wilayat Sinai), le brigate al-Furqan, Ansar al-Sharia, al Mourabitoun e altre organizzazioni minori.

Il futuro è dunque incerto: negli ultimi mesi si sono registrati anche degli scontri tra il gruppo di Jund al-Islam, affiliato ad al-Qaeda, e i miliziani di WS. Uno scenario complesso che preoccupa i palazzi del governo del Cairo, impotenti di fronte a un escalation terroristica senza precedenti.

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