Dal 30 ottobre al 5 novembre si sono svolti anche quest’anno, per la ventesima volta, i “Giorni della Ricerca” organizzati dall’Airc, volti a raccogliere fondi da destinare alla ricerca sul cancro. Grande visibilità è stata data su tutti i media all’iniziativa e dagli stadi alle università, dalle trasmissioni radiofoniche a quelle televisive, è stata ricordata la necessità di incrementare le donazioni e supportare i ricercatori impegnati su questo fronte.

Le piazze italiane, dopo essere state invase dai più svariati tipi di fiori e frutta offerti negli anni scorsi per stimolare le donazioni, hanno visto questa volta la comparsa dei “Cioccolatini per la Ricerca”. Nel comunicato stampa dell’Airc si fa riferimento al miglioramento della sopravvivenza a cinque anni che è aumentata nel nostro paese, rispetto ai casi diagnosticati nel quinquennio precedente, sia per gli uomini (54% vs 51%) che per le donne (63% vs 60%) e che vede l’Italia al vertice delle statistiche europee. Nel comunicato si ricorda anche che nel 2030 il cancro sarà la principale causa di morte e saranno diagnosticati in tutto il mondo fino a 21,6 milioni di nuovi casi all’anno; traspare il concetto che tutto ciò sia attribuibile in massima parte all’invecchiamento della popolazione. Ma dovremmo forse augurarci di morire da giovani per sfuggire a questa sorte? Purtroppo no, visto che è in aumento anche l’incidenza di cancro nell’infanzia e nell’adolescenza, problema del quale mi sono ripetutamente occupata e che rappresenta motivo di crescente preoccupazione e di inquietanti interrogativi per buona parte del mondo medico e scientifico, ma che non sembra interessare più di tanto il mondo accademico italiano.

Nel rapporto “I numeri del cancro in Italia” diffuso due mesi fa, leggiamo che nel 2017 sono stati diagnosticati nel nostro paese oltre 369.000 casi di cancro, rispetto ai 365.000 del 2016  e si attribuisce questo ulteriore incremento all’invecchiamento della popolazione, fenomeno senz’altro importante che caratterizza la nostra situazione demografica, ma nel medesimo testo, per quanto riguarda i tumori infantili, abbiamo trovato solo queste poche righe: “In età infantile (0-14) si trova una quota molto limitata del totale dei tumori (meno dello 0,5% dei tumori). Nelle prime decadi della vita, la frequenza dei tumori è infatti molto bassa, pari a qualche decina di casi ogni 100.000 bambini ogni anno”. E’ sconcertante che questa – apparentemente bassa – percentuale di tumori in età infantile rispetto al totale dei tumori non venga in alcun modo commisurata alla drastica riduzione della popolazione infantile che si è registra in Italia: nel censimento del 1971 i bambini da 0 a 14 anni rappresentavano il 25,4% della popolazione italiana mentre, ai giorni nostri rappresentano solo il 13,5%. Perché invece di considerare la quota di tumori che si riscontra in età infantile rispetto al totale dei casi di cancro, non ci si preoccupa piuttosto di calcolare come si è modificata dagli anni 70 ad oggi la probabilità dei bambini italiani di ammalarsi di tumore? Quale incidenza di cancro nelle prime età della vita si deve attendere prima di prendere in seria considerazione il problema? Come è possibile che sia passato sotto silenzio il recente lavoro della Iarc da cui emerge che la più elevata incidenza di cancro sia fra 0-14 anni che fra 15-19 si registra nel Sud Europa e che in 4 Registri italiani (Umbria, Modena, Parma e Romagna) l’incidenza supera addirittura i 200 casi fra 0-14 anni per milione di bambini/anno, rispetto ad una media globale di 140,6?

Eppure molto già si sa e – volendo – molto già si potrebbe fare per ridurre i rischi e migliorare la salute dei bambini e dei giovani: un articolo comparso su Pediatrics a novembre 2016 dal titolo emblematico: “Strategie ambientali ed economiche per la prevenzione primaria del cancro nelle prime fasi della vita” ha stimato che siano oltre 7.000 i casi di cancro infantile evitabili ogni anno negli Stati Uniti, riducendo le esposizioni ambientali nocive. Ridurre le esposizioni ambientali non è una utopia, visto che, nel medesimo articolo, si porta l’esempio del Massachusetts in cui, dal 1990 al 2010, le misure ambientali adottate hanno portato ad una riduzione di oltre il 90% nelle emissioni di cancerogeni noti o sospetti quali cadmio, cromo, ftalati, etilene ossido, formaldeide, metilene, tricloroetilene, percloroetilene.

In Italia la situazione ambientale è a dir poco drammatica, basti pensare ai livelli di polveri sottili presenti in queste settimane nelle nostre città o quanto si sta registrando in Veneto in cui si prevede l’utilizzo di plasmaferesi per abbassare i livelli di composti perfluoroalchilici (Pfoa, Pfas). Ed è ormai noto che le sostanze estranee presenti nei nostri corpi passano dalla madre al feto, problema su cui si concentra sempre più l’attenzione dei professionisti che si dedicano alla salute riproduttiva. Una indagine condotta su 268 donne in stato di gravidanza negli Stati Uniti ha ricercato nelle loro urine o nel sangue la presenza di 168 diverse sostanze chimiche suddivise in 10 categorie: metalli pesanti (mercurio, piombo, cadmio), composti organici volatili, ritardanti di fiamma, policlorobifenili (PCB), idrocarburi policiclici aromatici (IPA), pesticidi organofosforici, pesticidi organoclorurati, ftalati, fenoli, composti perfluorinati, riscontrando che esse sono presenti in percentuali variabili dall’88% al 100% dei soggetti.

Credo che il mondo medico ed accademico nel nostro paese abbiano una responsabilità non indifferente nel non affrontare con la necessaria decisione le questioni ambientali e che – ancora una volta – il prezzo più alto di questa voce troppo fievole, per non dire assente, lo paghi l’infanzia. Purtroppo non esistono vaccini contro l’inquinamento, ma vorrei che le voci che con tanta enfasi si sono ovunque levate per promuovere le pratiche vaccinali nei bambini, si levassero anche per difenderli dal cancro e dai rischi ambientali.

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