Nelle parole del discorso pronunciato dal premier Paolo Gentiloni all’inaugurazione della Fiera del Levante di Bari ho trovato un importante mea culpa: è stato un errore negare la questione meridionale negli ultimi anni. In effetti, lo avevano fatto solo Mussolini e la riforma del titolo V (2001), che ha rimosso la parola “Mezzogiorno” dal Testo costituzionale. È indubbiamente un passaggio rilevante, di cui non posso che prendere atto con soddisfazione. Riconoscere il rilievo del Sud nella ripresa di tutto il Paese è premessa fondamentale. Sono lieto che siano state citate proprio le parole di Aldo Moro, che, inaugurando anch’egli un’edizione della Fiera del Levante di oltre mezzo secolo fa, già aveva intuito che senza coinvolgimento attivo del Mezzogiorno nelle dinamiche economiche, il paese non sarebbe andato da nessuna parte.

Restano, però, i dati del divario, resta il fenomeno della disoccupazione. Resta, soprattutto, il dato più grave: quel numero immenso di giovani, di cui troppi laureati, costretti ad andar via. Ragazzi su cui il territorio ha investito senza poter raccogliere i frutti. Sono ben oltre mezzo milione (Rapporto Svimez 2015). Premesso che senza infrastrutture adeguate nel settore dei trasporti, la grande industria al Sud rischia di diventare un miraggio, o sempre soggetta al ricatto occupazionale, come intendiamo pensare di fare innovazione al Sud? Spero vivamente non si continui a desertificare l’università con l’ormai annosa riduzione dei fondi, giustificata da politiche di attribuzione di fondi premiali assolutamente da rivedere, prima che sia troppo tardi.
Quando un mea culpa anche su quel fronte?

Sarebbe interessante, visto il contesto, incentivare il patrocinio universitario di nuove attività produttive basate su tecnologie studiate nei laboratori di ricerca e destinate, oggi, a restare nel cassetto. Uno degli interventi di carattere straordinario potrebbe essere questo, consentendo da un lato di frenare l’emorragia dei giovani di talento formatisi ad altissimo livello e quasi sempre privi di sbocco occupazionale sul territorio, dall’altro di scongiurare un futuro a bassa intensità tecnologica per il Mezzogiorno. D’altronde, il grave errore insito nella retorica della “vocazione naturale” del turismo e dell’agricoltura era già stato dimostrato da Francesco Saverio Nitti, agli albori del Novecento. Eppure ancora se ne parla. Dal percorso accennato, invece, anche i settori dell’agricoltura e del turismo non potrebbero che giovare, in modo inevitabilmente virtuoso.

Pensare di produrre sul territorio tecnologie innovative (dispositivi elettronici innovativi per la sensoristica, la produzione di energia, la diagnostica innovativa, il risparmio energetico) non richiederebbe gli investimenti necessari alla grande industria, ma darebbe impulso a un nuovo modo di fare piccola-media impresa, dinamico e multiattoriale, attivando una proficua comunicazione tra ricerca e ambito produttivo. Sono molti i brevetti detenuti dalle nostre università, dai nostri centri di ricerca: permettiamo ai giovani laureati di scommettere su queste tecnologie innovative, con il sostegno dello Stato e di grandi partner industriali che agiscano almeno da supervisori.

D’altra parte, è indispensabile favorire la sperimentazione, l’autonomia energetica e le comunità dell’energia, dotando i sindaci di strumenti finanziari forti per l’innesco della transizione energetica dal basso, proprio partendo da piccole realtà. Anche il premier parla di “Green economy”, ma non si può, in concreto, lasciare che un fatto epocale come la Energy transition rimanga affidata allo sforzo titanico di pochi attori. Potrebbe essere uno dei tasselli di una rilevante azione straordinaria nel Mezzogiorno che non sia la solita pioggia di denaro senza progettualità, col respiro breve. Quando c’è, il respiro.

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