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Salotti buoni, ultima estate calda: Unicredit verso l’addio a Mediobanca. E l’italianità di Generali è più in bilico

Il finanziere francese Bolloré è candidato a diventare il primo azionista di Piazzetta Cuccia proprio mentre la banca milanese è nel bel mezzo dello smantellamento del portafoglio di partecipazioni che presidiava il capitalismo italiano. E il modello "public company" immaginato per la compagnia assicurativa di Trieste finora non ha avuto fortuna nella Penisola
Salotti buoni, ultima estate calda: Unicredit verso l’addio a Mediobanca. E l’italianità di Generali è più in bilico
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L’ultima estate calda del salotto buono di Mediobanca rischia di costare cara all’Italia. Non appena i prezzi di Borsa lo consentiranno, Unicredit dirà addio alla quota detenuta nel capitale dell’istituto guidato da Alberto Nagel. Lo ha ribadito l’ad, Jean-Pierre Mustier, nella conferenza sui risultati semestrali del gruppo. A bocce ferme, quindi, il finanziere francese Vincent Bolloré è candidato a diventare il primo azionista di Piazzetta Cuccia con un tempismo unico: la prospettiva si materializza infatti proprio nel momento in cui la banca milanese è nel bel mezzo dello smantellamento del portafoglio di partecipazioni concepito a presidio del capitalismo italiano da Enrico Cuccia. E per il raider bretone rappresenta un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.

Con queste premesse si apre uno scenario decisamente in evoluzione per Generali, di cui Mediobanca è il primo socio. Non a caso, interpellato sul punto, Mustier ha dichiarato di immaginare un futuro in cui la compagnia assicurativa di Trieste sia “indipendente”, “quotata” e “italiana” perché il Paese è “importante avere una grande compagnia assicurativa”. Non sfugge a nessuno però che il presidio dell’italianità a Trieste è già oggi ridotto al lumicino. Il primo azionista Mediobanca è nelle mani della Unicredit di Mustier e di Bollorè, che ne è il primo socio privato. I soci italiani di Generali restano il gruppo Caltagirone (3,62%) e la Delfin di Leonardo Del Vecchio (3,16%). Ci sono poi gli istituzionali italiani che, secondo l’aggiornamento libro soci del 3 agosto, pesano per il 13,97% contro il 38,97% di quelli stranieri. Si capisce dunque chiaramente perché, a gennaio scorso, Intesa abbia tentato un’offensiva su Trieste, finita con un buco nell’acqua.

Archiviato il capitolo Intesa, in quel che resta del salotto buono s’immagina per Generali una public company. Ma finora il modello non sembra aver avuto molta fortuna in Italia. Lo testimonia il caso Tim. Avrebbe dovuto diventare un’azienda a capitale diffuso, come sosteneva l’ex ad Marco Patuano, dopo l’uscita dal capitale del presidio italiano (Mediobanca, Intesa e Generali) e il passaggio di mano agli spagnoli di Telefonica. Le cose sono invece andate diversamente: di recente la Vivendi di Vincent Bolloré, succeduto a Telefonica, ha dichiarato di esercitare la “direzione e il coordinamento” del gruppo pur avendo in mano solo il 23,9 per cento. Il governo italiano si è accorto allora di essersi fatto sfuggire un asset strategico e sta cercando soluzioni improbabili con l’applicazione del golden power contro Vivendi che ha in corso anche un braccio di ferro con Mediaset. La questione è insomma assai spinosa. Come del resto rischia di esserlo di qui a breve anche quella delle Generali che persino l’ad francese, Philippe Donnet, uomo di fiducia di Bolloré, vorrebbe restasse “indipendente”, come ha spiegato in più occasioni dopo il blitz di Intesa.

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