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Festival di Sanremo 2017: Ermal Meta celebra Modugno, il duo Giulia Luzi/Raige il miglior trash

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Ancora qui a parlare del migliore e del peggior momento musicale delle serate del Festival di Sanremo 2017. Ieri, nella terza, è stata la volta delle cover e del ballottaggio tra sei brani di big a rischio eliminazione.

Il miglior momento è stato sicuramente quello di Ermal Meta, che in effetti si è classificato primo col rifacimento di Amara terra mia di Domenico Modugno. Meta è un autore puro, cantautore raffinato che ieri sera, con una canzone dal pathos difficilissimo a cui approcciarsi e da restituire, ha saputo addirittura completarne la scrittura. Lo stratagemma del duetto immaginario in realtà non è nuovo nella sua poetica, e chi lo segue sa che, proprio su questo brano di Modugno, Meta ha realizzato in passato lo stesso “canto a due voci” come omaggio a una persona a lui molto cara.

Se Domenico Modugno a Sanremo nel 1958 ha introdotto per primo, a livello mediatico nazionale, la teatralità nella canzone d’autore, con quelle braccia larghe sul ritornello di “Nel blu, dipinto di blu”, la trovata teatrale di chiamare una fantomatica Marì a cantare e la modulazione diventano anche una citazione celebrativa, sia al Modugno dialettale che all’istrione empatico. Tutto si tiene, per un’esibizione di primissimo livello.

Nella seconda serata il pasticcio di Nesli e Alice Paba mi ha impedito di eleggere il trash spinto e inconsapevole di Giulia Luzi e Raige come esibizione peggiore; adesso va restituito loro il maltolto. I due ragazzotti, con la canzone Togliamoci la voglia si sono confermati pessimi. Il discorso è questo: tutto ha un limite. A parte la bruttezza e la mediocrità del pezzo, colpisce la sfrontatezza di lui e gli ammiccamenti di lei, incredibilmente ignari del fatto che il giochino allusivo sessuale sia oramai talmente sdoganato, anche nelle canzoni di Sanremo, da renderli teneri e del tutto innocui. Patty Pravo, a settant’anni, ispirerebbe più erotismo di loro due anche vestita da omino della Michelin.

La banalità del male dei giochini discografici a volte è deprimente.

A domani.

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