Carla Fracci superwoman al San Carlo, balla per i suoi 80 anni. Fanfara per Franceschini
E sono ottanta. Portati con leggerezza, quella leggerezza, intesa alla Italo Calvino, ossia assenza di peso, che la fa ancora volteggiare come se ne avesse trenta. Carla Fracci, star assoluta del suo Galà al Teatro San Carlo, ha ballato, sì ha ballato, balla ancora e ha fatto casqué spacca/ossa con lo statuario Giuseppe Picone, suo allievo e neodirettore della compagnia di ballo, e soprattutto in grado di non farci rimpiangere l’altro bronzo di Riace, Roberto Bolle. A sipario calato tutto il teatro si alza in piedi, pioggia di petali e diluvio di flash di iPhone.
Carla, una tappa della maratona d’intelletto-chic, tutta made in Sud: vernissage e finissage, prime e ultime, concerti, concertini, virtuosi, muse e ministri in vetrina mediatica. Una non stop da togliere il fiato per chi si è voluto scapicollare a destra e a manca, dall’onirico/interiore/demoniaco Macbeth di Luca de Fusco al Teatro Mercadante a Chrysta, la musa aliena del regista icona David Lynch. Come le scatoli cinese, una sequenza di eventi di crescente grandezza che ha fatto scomodare anche Diego della Valle. Invitato da Paolo Fiorillo e da Roberta Buccino Costa sotto la scalinata di via Filangieri, che sembra un po’ quella di Piazza di Spagna. Effetto a catena, un nome tira l’altro: per mr. Tod’s si scomoda Scianel (volto televisivo e truce di Gomorra), alias Cristina Donadio, che ha prestato schiena e sexy appeal allo stilista Alessio Visone che in passerella evoca la Kiki de Montparnasse degli anni ’30, la più trasgressiva e sensuale delle muse.
Proprio come Chrysta che, come unica tappa italiana del suo global tour “Somewhere in the nowwhere”, sceglie un chiostro cinquecentesco recuperato da operazione molto smart di Tramontano, antica pelletteria e sponsor del Made in Cloister. Biglietti esauriti, meno male che ci pensa il notaio Sergio Cappelli, che si definisce “donatore matto”. Ne ha comprati una quarantina, da distribuire agli amici “vengo last minute”.
Vedere Daniel Oren che dirige al San Carlo il melodramma Adriana Lecouvreur ti pone davanti al dilemma: guardo lui o gli attori. Oren che fa piroettare la sua bacchetta, che zompetta, che accompagna il coro con movimento labiale. Oren è un’onda in piena d’emozioni. Oren che si scosta la giacca e mette la mano sul cuore, Oren che, spalle al pubblico, con la mano a mezz’aria invita il pubblico al silenzio fino a lasciare vibrare l’ultima nota. Poi si volta, un accenno d’inchino con la testa e gli applausi sono tutti per lui; dispiace quasi per il tenore e il soprano che, con Oren sul podio, sembrano comparse. Oren che riceve in camerino, in accappatoio, madido di sudore. Oren, l’istrione, enfant prodige che a soli 13 anni Leonard Bernstein lo volle con sé e che ha innovato lo stile del conduttore d’orchestra, è l’anti-divo, uno che non se la tira per niente.