La rabbia era iniziata a salire quando, all’Università di Bologna, gli fu esplicitamente chiesto di non presentarsi ai concorsi come ricercatore per evitare di creare problemi al candidato preselezionato. “Mi fu spiegato che nel mondo accademico italiano esistono delle regole non scritte ma che tutti conoscono – racconta Lorenzo Fioramonti, 39 anni, che all’epoca aveva appena finito un dottorato e due anni come assegnista presso la facoltà di Scienze Politiche -. La prima è che bisogna aspettare il ‘proprio’ concorso’”. Ovvero, salvo eccezioni, i concorsi sono banditi per qualcuno in particolare. La seconda, è che non ci si presenta a un concorso a meno che non si sia stati invitati a farlo. “Questo vale soprattutto per chi ha un curriculum forte, perché potrebbe creare problemi al candidato preselezionato per vincere”. A regole del gioco palesate Lorenzo, allora 33enne, inizia a notare molti aspiranti ricercatori mettere in stand-by la loro vita in attesa di una selezione pensata ad hoc per loro. “Io non avevo padrini nel sistema e non potevo aspettare”. A quel punto non restava che dire addio al mondo accademico italiano.

Sono passati sei anni da quel giorno. Ora Lorenzo, cresciuto nella periferia romana, è professore ordinario di Economia e Politica all’Università di Pretoria. Ha ottenuto la sua cattedra a soli 35 anni e ha fondato, sempre nella capitale sudafricana, il Centro per lo studio dell’innovazione nella governance, una collaborazione scientifica tra il governo francese e quello sudafricano, che oggi ha vari uffici nel mondo e circa 50 ricercatori. I suoi libri sono tradotti in dieci lingue e l’ultimo uscirà in collaborazione con il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.

“In Italia bisogna aspettare il ‘proprio’ concorso. Io non avevo padrini e non potevo aspettare”

“Si è avverato il mio sogno. Finalmente mi danno la possibilità di dimostrare ciò che so fare, con un lavoro a tempo indeterminato e senza l’assillo del domani”. Tanto che Lorenzo sta coordinando la nascita “del più grande campus per la ricerca sullo sviluppo sostenibile in Africa”. “Si tratta di un investimento di oltre 50 milioni di euro, fatto dall’università in partnership con molti finanziatori internazionali, e sarà la punta di diamante della ricerca scientifica di questo continente”. Non male per un assegnista a cui avevano chiesto di non presentarsi a nessun concorso in Italia. “Sono, ovviamente, un italiano che è dovuto andare all’estero per realizzare la propria carriera scientifica“.

Perché Lorenzo, il dente avvelenato con la sua partenza forzata ce l’ha. “Sogno un rientro in massa di tanti cervelli fuggiti. Io stesso vorrei tornare in Italia per rimboccarmi le maniche e aiutare il paese a rimettersi in piedi”. Sogni, appunto, che durano giusto il tempo di fare la comparazione tra la sua vita prima e dopo avere fatto le valigie: un confronto “imbarazzante”. La vita di un assegnista nel Belpaese? Poco più di mille euro al mese erano barattati con classi di oltre cento studenti, esami da correggere e poco tempo per fare ricerca.

“In Italia nessuno mi prendeva sul serio. Mia moglie, tedesca, me l’aveva detto: ‘Non è il paese della dolce vita’”

“Nessuno mi prendeva sul serio: non avevo neppure un ufficio ma una panca dalla quale lavorare col mio computer portatile. Ovviamente, nessun fondo per partecipare a conferenze”. Oggi, invece, le conferenze le organizza lui, con uno stipendio che è più che triplicato e una villetta con piscina dove i suoi due figli lo aspettano quando esce dal campus. Una sistemazione che non era stato possibile trovare in Italia quando, insieme a sua moglie, sognava di comprare casa e avere una famiglia. “Mia moglie è tedesca e al tempo lavorava come consulente per le Nazioni Unite. Aveva cercato impiego in Italia ma nonostante la sua preparazione ed il fatto che parlasse cinque lingue, non c’era riuscita. ‘Questo non è il paese della dolce vita’, mi diceva sempre”.

Poi, nel 2010, “quasi magicamente” squilla il telefono: un docente tedesco con cui aveva collaborato durante il dottorato aveva ricevuto alcuni fondi per la ricerca e gli offriva un lavoro. “Mia moglie era appena rimasta incinta. Abbiamo fatto i bagagli e ce ne siamo andati”. Ad attenderli, all’Università di Heidelberg, città a un’ora da Francoforte, un contratto che includeva non solo lo stipendio, ma anche l’affitto della casa e l’asilo nido per il bimbo. Poi il trasferimento a Berlino, dove sua moglie è diventata dirigente di Trasparency International mentre Lorenzo ha ottenuto un contratto d’insegnamento. Solo quattro anni fa, il trasferimento all’Università di Pretoria. “Nel mondo anglosassone non esistono i concorsi: si fanno dei colloqui e poi quello che conta sono esperienza e pubblicazioni: così ottenni il posto da professore in Sudafrica senza alcun problema”. Cosa resta di quel concorso tutto italiano a cui non aveva neppure potuto partecipare? Una sola netta conclusione: “L’università in Italia è morta”.

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