Soddisfatti e rimborsati. In Piemonte è appena finita, con 15 assoluzioni e 10 condanne. Anche l’inchiesta nelle Marche era partita col botto (66 indagati) ma a giudizio il prossimo sei dicembre saranno solo in cinque. Il gip aveva chiesto di processarli tutti, il gup ha disposto il proscioglimento per 55 indagati perché “il fatto non sussiste”. La stessa Procura aveva poi chiarito che, in effetti, non si riscontravano propriamente “spese pazze” ma una sistematica “distrazione di fondi” da spese istituzionali ad altre relative all’attività politica dei singoli consiglieri. E il banchetto di nozze, i regali di Natale, i fiori e le cene allargate possono anche rientrare nella categoria. Nessun ladrocinio, insomma, semmai uno “sviamento dei fondi”. L’epilogo potrebbe essere simile in altre regioni.

Il più grande scandalo dopo Tangentopoli sta scivolando verso l’oblio. Come nulla fosse successo. E allora: che fine ha fatto “rimborsopoli”? Che ne è della bufera giudiziaria che sulle orme di Fiorito ha travolto sedici consigli regionali su venti e un esercito di oltre 500 politici? Poche condanne esemplari, molte assoluzioni, anche di massa. Questo dicono le sentenze emesse finora, e non perché tutti gli imputati siano riusciti a dimostrare l’uso corretto dei denari del contribuente. Di fatto molti processi di primo grado si sono risolti in un generale processo di rimozione e autoassoluzione del blocco politico alla sbarra. Che grazie a sentenze come quella del Piemonte, possono sperare. Ecco perché.

Se a rubare sono i “diversamente ladri”
In dibattimento l’accusa di peculato, sui cui tutto ruota, finisce spesso sepolta sotto la “mancanza di dolo specifico”, oppure annegata tra sottili distinguo sulla natura del reato che non c’è, se i soldi non vengono materialmente intascati ma spesi, benché in modi molto discutibili. Gli imputati vengono poi dichiarati incolpevoli “stante la loro buona fede”, perché tratti in “errore” da una prassi e da regolamenti in capo ai consigli mai del tutto chiari, oggettivi e cogenti nell’indicare i vincoli di destinazione dei contributi da usare per spese di “rappresentanza”, “segretaria” e “attività politico-istituzionale”. Così, sempre “per errore”, ci sarebbero finiti in mezzo gli scontrini il salame, il banchetto di nozze per la figlia etc. L’alibi però non sempre è vero. “Se avessi detto che non andava bene una singola spesa, mi sarei trovato il giorno dopo in giardino” dirà il capo degli scontrini al Pirellone Alvaro Scattolini, per trent’anni dirigente regionale addetto alla verifica della spesa amministrativa, in un’udienza del processo a carico di 56 consiglieri regionali lombardi. Fatto sta che alcune di queste argomentazioni difensive sono state accolte in giudizio.

Parla di una “zona grigia” la sentenza con cui il gup di Bologna Letizio Magliaro, lo scorso dicembre, ha assolto i primi tre ex consiglieri sui 41 finiti a processo in Emilia Romagna per le spese relative al 2010-2011. Il bianco sono le cene, le feste politiche, le consulenze e le trasferte. E’ una scelta del singolo, argomenta il giudice, se spendere un mucchio di soldi per queste attività oppure no. Una scelta di “natura squisitamente politica” sulla quale non può intervenire una valutazione del giudice e conseguentemente sanzione di tipo penale”. Il nero sono le spese incongrue, abnormi o giustificate da documentazione falsa. Oltre questi casi, il giudice non può andare. Una questione di misura, insomma. La Procura non sembra del tutto d’accordo e ha proposto appello contro due assoluzioni (in tutto sono 9 per ora, a fronte di tre condanne e una ventina di posizioni aperte).

In Friuli l’inchiesta era partita con 22 indagati. Il 18 aprile 2016, a sorpresa, 18 ex consiglieri vengono assolti dal Gup Giorgio Nicoli perché il “fatto non sussiste”. Sembra una questione di latitudini mista a orgoglio locale: “Queste vicende – spiegherà Nicoli – “sono nate sulla scia dell’inchiesta su Fiorito, nel Lazio, ma in Friuli-Venezia Giulia nessuno di quei fatti è riconducibile, per le persone assolte, all’esempio del Lazio”. Il distinguo: “Un conto è prendere denaro del gruppo per versarlo sul proprio conto corrente o per acquistare immobili, ma in Friuli-Venezia Giulia non c’era nessuna contestazione di fondi utilizzati in questo modo”. In effetti il pm aveva contestato acquisti meno impegnativi: pneumatici, passeggini per bambini, profumi, gioielli, acquisti di pesce, lavatrici. E una quantità di scontrini enorme riferita ai viaggi: da Cortina a Parigi e fino all’Estremo Oriente (soprattutto in periodo estivo). Spese per un totale di 350mila euro. Se l’appartamento non c’era,  la cifra gli equivale. A beneficio dei “diversamente innocenti”.

Il 30 marzo 2015 anche in Val D’Aosta la “rimborsopoli” ha partorito il nulla: la Procura aveva chiesto 30 anni di carcere e oltre 600mila euro di multa per i 24 i politici alla sbarra. Per il Gup “il fatto non sussiste”. Insomma, la giustizia sembra quasi tentennare e dividersi. La politica quasi festeggiare. Perché?

Così la politica vince il derby con la giustizia
Una risposta può venire dalla reazione del “sistema” sotto inchiesta. Il blocco politico alla sbarra infatti non è rimasto a guardare. Quando scoppia lo scandalo degli scontrini si professa garantista, lavora di avvocati, si prodiga per “alleggerire” le posizioni degli imputati e minimizzare il disvalore sociale ed etico delle condotte contestate. Più che per convinzione, per necessità: deve tenere in piedi le assemblee e le giunte che già ci sono, con le relative poltrone, e traguardare le regionali 2015, primo vero banco di prova dei parlamentini sotto inchiesta. La prova sarà segnata dalle polemiche sulle candidature degli indagati e finirà con il dato di affluenza più basso nella storia repubblicana (53,9%).

Ai primi avvisi di garanzia risorge il partito trasversale contro la magistratura, come ai tempi di Mani Pulite. Tra le sue fila siedono il presidente della Liguria Giovanni Toti (FI) e il segretario del Carroccio Matteo Salvini. “Spero esista ancora uno stato di diritto”, dice il primo chiarendo che i suoi “colonnelli” indagati non dovevano dimettersi, decapitando la giunta. E così sarà: il processo a carico di 23 ex consiglieri inizierà ad ottobre e al suo posto è rimasto anche Edoardo Rixi, braccio destro di Salvini e assessore regionale allo Sviluppo economico. Il segretario gli fece subito quadrato intorno: “Non si deve dimettere, se dovessimo farlo in base a come si alza il giudice di turno siamo messi male. Ho una fiducia nella giustizia italiana pari allo 0,1%”. Non mancano esternazioni di dileggio nei confronti degli inquirenti costretti a vagliare i rendiconti  e le improbabili spese degli indagati. Fa impressione, in proposito, rileggere le dichiarazioni di magistrati che quasi si giustificano: “Non è colpa nostra – disse a un certo punto il pm di Torino Avenati Bassi – se siamo stati costretti a fare le pulci agli scontrini da un euro. E’ la realtà che è patetica” .

Analoghe le reazioni sul fronte Pd, ben rappresentate dal “caso Barracciu”, una bella gatta da pelare anche per il governo. “Il Pd è un partito garantista, il suo codice etico non esclude che ci si possa candidare per un avviso di garanzia. Neppure per rinvio a giudizio”, rivendicò Francesca Barracciu, l’esponente dem che aveva vinto al primo turno le primarie in Sardegna, salvo dovervi rinunciare tre mesi dopo proprio perché indagata dai pm di Cagliari che le contestano tuttora spese per 81mila euro per gli anni 2004-2013. Lei si professa innocente e Renzi le crede perché il 28 febbraio 2014, con le indagini ancora a metà, la nomina sottosegretario ai Beni Culturali. La sua posizione però si aggrava e a fine ottobre 2015 viene rinviata a giudizio e lei si dimette, non senza una stoccata ai magistrati: “C’è un evidente problema di funzionamento del meccanismo giudiziario. Non è giusto per i cittadini che attendono di conoscere la verità e non è giusto per chi è coinvolto in un’indagine”. L’attesa, in vero, non sarà poi tanta perché il processo inizierà cinque mesi dopo. In quei mesi si colloca la crociata di Renzi sulla riduzione delle ferie ai magistrati (e relative polemiche).

E se in sede penale sembra aver prevalso la prudenza, un altro organo di giustizia, la magistratura contabile, è invece andata dritto come un treno, più volte contestando e condannando per danno erariale anche chi sul fronte penale aveva incassato in primo grado un’assoluzione piena. Ad esempio in Friuli, dove molti consiglieri sono stati chiamati a risarcire la Regione (tutti hanno proposto appello). E non è l’unico caso.

A livello locale si sono anche registrati tentativi di condizionare i giudici al limite del lecito. Sempre in Liguria il leghista Francesco Bruzzone, già presidente del Consiglio regionale a processo per peculato e falso, è stato accusato di aver tentato di ricattare una funzionaria della Regione, moglie di un magistrato della Procura di Genova, per aggiustare le indagini. In cambio, avrebbe ottenuto la riconferma a capo di gabinetto. Così a Bruzzone arriva un secondo avviso di garanzia, stavolta per induzione alla concussione. L’accusa sembra però destinata a cadere. Lo stesso pm Massimo Terribile, titolare dell’inchiesta, ha chiesto l’archiviazione per il quadro probatorio labile anche se la vicenda resta contornata da un alone di dubbio. Il procuratore capo, Francesco Cozzi, precisa: “Si tratta di una motivazione molto articolata… bisogna leggerla… non dice che non c’è stato niente…”.

C’è poi chi ha apertamente diffidato il proprio giudice. Il consigliere ligure Gino Garibaldi (Ncd), tramite il suo legale, scomoda il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sostenendo che “La procura e il gip hanno invaso la sfera di attribuzioni del consiglio regionale”. Le difese si fanno sempre più ardite, strabilianti e perfino grottesche. In Sicilia il processo alle “spese pazze” comincerà il 7 novembre davanti alla terza sezione del Tribunale di Palermo. L’ex capogruppo Raimondo Rudy Maira (Udc) è rinviato a giudizio per peculato. Tra le altre cose gli viene contestato di aver pagato il leasing di un’Audi A6 coi fondi del gruppo. La sua difesa è: ma quale Audi, io guido una Maserati. Un suo collega, Francesco Musotto (Mpa) usa argomentazioni apodittiche: lui non avrebbe mai potuto commettere un reato di peculato perché suo padre, professore di giurisprudenza, era un esperto in materia e ne aveva scritto pure un libro. Le colpe dei figli, si sa, non possono ricadere sui padri. E quelle dei ladri sulle proprie, se sono riconosciuti “diversamente ladri”.

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