di Roberto Iannuzzi*

A una settimana dal referendum che ha posto Regno Unito e Ue su strade divergenti, è l’incertezza a dominare il panorama europeo. L’unico dato certo è che la pratica del “divorzio” sarà lunga. Nel frattempo, alcuni analisti si affannano a ipotizzare scenari in base ai quali la Brexit verrà infine evitata. In linea di principio ciò è possibile, dato il carattere consultivo del referendum. Questo significa che, se il governo di Londra non invocherà formalmente l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, il Regno Unito rimarrà a tutti gli effetti all’interno dell’Unione. Tali scenari, tuttavia, trascurano il fatto che l’esito del referendum ha già prodotto alcune realtà incontestabili. Esso ha inasprito i rapporti fra Londra e Bruxelles, sprofondando, al tempo stesso, sia la capitale britannica che quella europea in una crisi politica senza precedenti. Nel frattempo i mercati finanziari hanno registrato il peggior tracollo dalla crisi del 2008.

Il crollo dei titoli bancari ha innescato una crisi degli istituti finanziari che ha investito non solo paesi “periferici” come l’Italia, ma anche Germania, Francia e (ovviamente) Gran Bretagna. Come già accennato, prima ancora di una Brexit non ancora materializzatasi, la parola chiave in questa situazione è “incertezza”. Essa ha inferto un nuovo durissimo colpo alla credibilità di strutture già fiaccate da anni, come l’Unione Europea e il sistema finanziario internazionale. Tale incertezza dà nuovo impulso alle spinte disgregatrici emerse, in Europa e nel mondo, almeno a partire dalla crisi del 2008. I lavoratori inglesi hanno votato contro un’Ue centralista che non ha saputo risollevarsi da otto anni di stagnazione malgrado le massicce dosi di “austerità” che hanno colpito proprio le classi più disagiate.

Essi hanno votato contro la City di Londra, simbolo di un’ élite finanziaria considerata prima responsabile del tracollo del 2008 e incarnazione delle crescenti disuguaglianze generate dalla globalizzazione neoliberista. E in un impeto nazionalista dalle tinte xenofobe, hanno votato contro l’immigrazione, ritenuta un fenomeno “imposto” da Bruxelles, sia che provenga dall’Europa dell’Est sia che derivi dall’ondata di profughi in fuga dai conflitti mediorientali. Nel frattempo, quella che nel 2008 era emersa come una crisi economico-finanziaria continua ad avere ripercussioni geopolitiche, oltre che sociali e politiche, come dimostra la Brexit stessa. Sulla scena internazionale saranno in pochi a trarre vantaggio dal divorzio fra Ue e Regno Unito.

Quest’ultimo rischia invece di essere il primo a farne le spese. Già sprofondato in una gravissima crisi che ha investito il governo e i due principali partiti, esso potrebbe addirittura sfaldarsi se Scozia e Irlanda del Nord, che hanno votato a favore della permanenza nell’Ue, dovessero scegliere la strada dell’indipendenza. Un’Inghilterra così amputata perderebbe gran parte del suo peso politico nel mondo, oltre che in Europa. L’Unione Europea, dal canto suo, rischia di disintegrarsi se altri paesi decidessero di seguire l’esempio britannico. Ma, prima ancora di giungere a simili scenari, il semplice prolungarsi di estenuanti trattative per giungere al divorzio è destinato a far ripiegare Londra e Bruxelles sui rispettivi problemi interni.

L’ingresso di nuovi membri nell’Unione diventerà ancora più improbabile, in particolare quello della Turchia. L’isolamento di Ankara potrebbe a sua volta accelerare la sua deriva autoritaria e spingerla a usare i profughi come arma di ricatto nei confronti dell’Ue. La precipitosa visita del segretario di Stato John Kerry nel vecchio continente conferma, poi, che la Brexit è una sconfitta anche per gli Usa. Londra è sempre stata un alleato chiave di Washington, attraverso il quale l’America ha fatto sentire la propria voce a Bruxelles. Una Gran Bretagna ridimensionata e fuori dall’Unione potrebbe indebolire il legame transatlantico, spingendo Parigi e Berlino ad adottare una politica più autonoma nei confronti della Russia, o in materia di difesa comune.

Ma vi è pure il rischio che la Brexit rafforzi l’ondata xenofoba negli Usa, aiutando Donald Trump nella sua cavalcata verso la Casa Bianca. Dal canto suo Mosca, se ha da guadagnare da un’Unione Europea meno appiattita sulle posizioni americane e meno interessata all’Ucraina, certamente ha da perdere da un’Europa instabile, e da una recessione che favorirebbe un nuovo calo dei prezzi petroliferi. La Brexit colpisce anche la Cina, che puntava sull’economia britannica come grimaldello per accedere ai mercati europei e sulla City di Londra come centro finanziario per internazionalizzare lo yuan. Infine è interessante esaminare la prospettiva mediorientale.

Se nel mondo arabo molti temono che il referendum britannico preannunci tempi duri per le comunità musulmane immigrate nel Regno Unito, altri non nascondono una certa soddisfazione nell’immaginare l’antica potenza coloniale esclusa dall’Europa, indebolita o addirittura smembrata. Questo punto di vista è diffuso anche in Iran, dove si ritiene che una Gran Bretagna ridimensionata sarebbe meno in grado di sostenere nuove guerre americane nella regione, dopo averlo fatto in passato (ad esempio in Iraq e Libia). Altri tuttavia ammoniscono che un’Europa in crisi non potrebbe giocare quel ruolo di mediazione che è stato importante per raggiungere l’accordo nucleare, e che potrebbe essere cruciale per preservarlo in futuro alla luce delle difficoltà che Teheran sta incontrando con Washington.

*Autore del libro “Geopolitica del collasso. Iran, Siria e Medio Oriente nel contesto della crisi globale” (@riannuzziGPC)

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