Le privatizzazioni non sono il diavolo. Ma quando un ministro italiano ne parla, bisogna «mettere mano all’artiglieria» (Tex Willer), oppure mandargli per un ripasso qualche aureo libretto (ad esempio, M. Mucchetti, Licenziare i padroni?, Milano 2003), insomma spiegargli che non tutte le privatizzazioni sono uguali e in particolar modo quelle italiane sono molto strane, sicché sarebbe meglio che prima di decantarne le virtù e la necessità, ci spiegasse a quale modello intende rifarsi, se a quello scritto sui manuali di economia, oppure a quello scolpito nei casi Telecom, Autostrade e compagnia cantante. Insomma «non basta la parola» (Tino Scotti), contano i fatti e soprattutto le reali intenzioni del governo, che spesso sotto un abito ne nascondono un altro, parlano di «privatizzazione», ma intendono «favori agli amici».

Appunto, se per privatizzazione intendiamo la cessione del controllo del capitale azionario di aziende pubbliche, dovrebbero essere stabiliti alcuni punti fermi, che purtroppo raramente non sono stati né rispettati né, in molti casi, nemmeno richiesti. Non serve dire genericamente che bisogna tutelare l’interesse pubblico. Il primo principio da far rispettare è che chi compra deve avere i soldi. Come si dice, lo deve fare con «mezzi propri». Autofinanziamento, no debiti bancari, no aumenti di capitale strani, denaro contante proveniente dalle casse dell’acquirente. E le banche devono stare alla larga dal capitale azionario che viene rilevato, non sono soci ammissibili in un processo di privatizzazione. Insomma le privatizzazioni si pagano cash, non si fanno pagare ad altri. Le privatizzazioni sono una strada da percorrere importante, ma non indispensabile, e si fanno solo se l’economia del paese funziona, altrimenti risultano peggiori della proprietà pubblica. Lo Stato non può fare cassa impoverendo i consumatori e danneggiando l’economia del paese.

Il secondo punto riguarda gli interessi prevalenti. Che devono essere quelli dei consumatori o quelli degli utenti, nel caso di aziende di servizi. Un processo di privatizzazione deve comportare in primo luogo un miglioramento, qualitativo e quantitativo dei beni prodotti, un vantaggio per i consumatori, altrimenti è meglio stare tutti a casa propria e lasciare le cose come stanno. Terzo e ultimo, gli acquirenti devono garantire una stabilità della compagine azionaria, almeno fino a quando sono stati in grado di dimostrare che l’azienda privatizzata è in grado di reggersi sulle sue gambe a livelli pari o superiori alla precedente situazione a prevalente capitale pubblico.

Ora il discorso non è campato in aria perché nello specifico si parla di Anas, Trenitalia e un altro pezzo di Poste Italiane. Aziende un po’ tutte borderline, a un passo dal baratro, ma cruciali per il nostro paese. Anche per queste dovrebbe valere l’aureo principio che «è il gatto a tirare la coda e non la coda il gatto». Cioè, se certi obiettivi prioritari sono raggiungibili, le privatizzazioni si possono fare, altrimenti meglio lasciar stare. Abbiamo già dato con svendite del patrimonio industriale pubblico, che si sono rivelate un danno permanente e una perdita per tutti. In più va considerata la situazione economica presente, che è caratterizzata, al solito, da una propensione al rischio imprenditoriale dei capitalisti italiani pari a -273 e da una grave carenza di capitali da parte degli stessi, elementi che lasciano troppo spazio ai pasticci o all’ingresso massiccio di capitali stranieri. Mi duole concludere con l’ennesima banalità (l’Italia è il paese in cui la pratica delle banalità sarebbe rivoluzionaria), ma le cose o si fanno sul serio o è meglio non farle. E la gran parte delle «riforme» renziane, purtroppo, ha ampiamente dimostrato di difettare proprio di questo requisito.

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