“Berlusconi indagato a Lecce”. E’ il 31 dicembre 2010. Sono giornalista professionista da neanche 15 giorni. Un mio articolo dà il titolo di prima al Fatto Quotidiano. Cioè: il giornale di Padellaro, Travaglio e Gomez apre con il pezzo di chi, neanche cinque mesi prima, era uno stagista. Che ha telefonato in redazione alle dieci di sera e ha dato la notizia. Risposta del caporedattore: “Verifica e scrivi, ci apriamo il giornale”. Reazione (a cornetta abbassata): ma-ra-ca-i-bo, ma-re for-za no-ve, fuggire sì ma dove, za za. E una festa, dentro, che neanche Jep Gambardella.

Oggi ci ripenso, a distanza di sei anni e centinaia di articoli scritti. Quella copertina è paradigmatica del modo di intendere il giornalismo al Fatto: prima delle firme, seppur famose, vengono le notizie. E si pubblicano, tutte, a prescindere da chi le propone. Dopo due giorni un collega di un’altra testata nazionale mi manda un messaggio su Facebook: “Complimenti per l’assunzione al Fatto”. E io: “Magari! Nessuna assunzione”. Lui, sorpreso: “Ma come? Hai aperto il giornale, quindi ti hanno assunto”. “Ma va, avevo una notizia, l’ho proposta e me l’hanno pubblicata. Solo questo”. Silenzio, chat finita.

Evidentemente non era credibile che un perfetto signor nessuno avesse avuto una ribalta del genere. Perché in Italia non funziona così: se in redazione arriva una notizia, la prende in carico il responsabile del servizio. E chi l’ha segnalata molto spesso si attacca al tram. Al Fatto no. Il sottoscritto ne è la prova vivente. Vi ricordate la pubblicità del pennello Cinghiale? “Per una parete grande non ci vuole un pennello grande, ma un grande pennello”. Ecco, appunto: qui non serve una firma grande, basta una grande notizia. E’ un esempio di meritocrazia giornalistica che non ha paragoni nel Paese dove l’informazione è controllata dai centri di potere economico-politico. Insomma: è un esempio di libertà. Di scrivere, ma ovviamente anche di sbagliare (sì, sbagliamo tanto e non ci vergogniamo a dirlo e a scriverlo). E di pensarla diversamente dalla maggior parte dell’opinione pubblica e dei mass media.

Diversità e libertà: da preservare e proteggere, perché in via d’estinzione. E da sostenere, anche grazie al Fatto Social Club. Del resto è già successo. Nel 2009 la nascita del Fatto fu preceduta da un miracolo editoriale: 35mila potenziali lettori si abbonarono a un giornale senza averlo mai letto. Perché non esisteva ancora. Era l’Antefatto. Sono passati sei anni, quattro governi, Silvio Berlusconi è ai titoli di coda, la sua leadership e il suo sostegno sono stati sostituiti da Renzi e dal suo cerchio etrusco, abile come quelli che l’hanno preceduto a influire sull’informazione e sulla libertà di informare.

Qualcuno, accusandoci, dirà che siamo cambiati anche noi: gufi, grillini, manettari, bastiancontrari a prescindere. Ce lo dicevano all’epoca, ce lo dicono ora. Eppure ci siamo ancora e vogliamo esserci anche in futuro, magari grazie all’aiuto dei nostri lettori. Così se qualche giovane collaboratore chiama alle dieci in redazione per proporre una notizia vera e verificata, ci sarà sempre spazio e tempo per cambiare l’home page del sito o la prima pagina del giornale.

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