Oggi voglio condividere con le lettrici e i lettori di questo blog due buone notizie arrivate nei giorni scorsi dall’Iran: due rilasci di prigionieri di coscienza dal carcere di Evin, uno si spera definitivo e l’altro ancora provvisorio ma con una possibile revisione del processo.

Il 3 maggio Atena Farghadani, giovane vignettista e promotrice di campagne per la scarcerazione dei prigionieri politici, è stata rilasciata dopo che in appello la sua condanna a 12 anni e nove mesi di carcere, inflittagli il 1° giugno 2015, è stata ridotta a un anno e mezzo, buona parte dei quali già scontati. Farghadani era stata giudicata colpevole di “collusione per compiere crimini contro la sicurezza nazionale”, “propaganda contro il sistema”, “offesa alla Guida suprema” e “offesa a membri del parlamento”.

I parlamentari si erano sentiti “offesi” da una vignetta in cui erano raffigurati con fattezze di animali mentre si accingevano a votare provvedimenti discriminatori nei confronti delle donne, che avrebbero ridotto l’accesso ai servizi di pianificazione familiare e la disponibilità di metodi contraccettivi da parte del sistema sanitario nazionale. In carcere già dal 2014, Farghadani aveva denunciato a più riprese vessazioni da parte del personale carcerario: percosse, offese, obbligo di rimanere nuda e soprattutto, nell’agosto 2015, un test obbligatorio di verginità (fatto confermato dalle autorità iraniane all’inizio di quest’anno) per aver stretto la mano al suo avvocato durante un’udienza, cosa che aveva fatto sospettare una relazione sessuale extra-matrimoniale. Qui le immagini della prima dichiarazione di Atena Farghadani all’uscita dal carcere. Della condanna originaria restano in piedi i tre anni per “offesa alla Guida suprema”, ma con una sospensione di quattro anni: se in questo periodo compirà, a giudizio delle autorità, lo stesso reato ritornerà in carcere. Il 4 maggio Hossein Ronaghi Maleki è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione. Il provvedimento ha validità di 30 giorni ma è possibile che venga prorogato o che, nel frattempo, le autorità giudiziarie accettino di riesaminare il caso, giungendo almeno a un provvedimento di clemenza.

Maleki stava scontando una condanna a 15 anni inflittagli nel 2010 per “offesa alla Guida suprema” e appartenenza a un’organizzazione conosciuta come Iran Proxy Network. Il tutto a causa dei post pubblicati nei mesi successivi alla contestata rielezione, nel 2009, di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza della repubblica.

Nel corso degli anni le condizioni di salute di Maleki, che soffriva di problemi ai reni già prima dell’arresto, sono sensibilmente peggiorate, tanto che nel 2013, nel 2014 e nel 2015 ha trascorso lunghi periodi di tempo a curarsi in ospedale e a casa.

Il 20 gennaio di quest’anno l’ultimo rientro in carcere, durato meno di cinque mesi. Dovrebbe essere evidente anche alle stesse autorità iraniane che lo stato di salute di Maleki non è compatibile col carcere e che sei anni di prigione, tra una pausa e l’altra per i ricoveri, sono un’enormità per un blogger che non avrebbe mai dovuto essere arrestato.

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