Una rivolta nel carcere di Topo Chico, a Monterrey, la capitale dello stato di Nuevo León, in Messico. Urla, grida ma, soprattutto, esplosioni secche, continue, di granate ed il bagliore di un incendio cui ha fatto seguito un imponente operativo di polizia. Questo giura di avere visto e sentito chi passava attorno alla mezzanotte di ieri tra le vie Aztlán e Rodrigo Gómez – dov’è ubicata questa che è la più antica prigione del Nuevo León trasformatasi improvvisamente in un inferno che ha lasciato a terra 49 morti.

Ma quanto accaduto alla vigilia della visita di Papa Francesco – compresa una nel carcere Numero 3 di Ciudad Juárez, la città dei femminicidi dove celebrerà una messa –è in realtà ordinaria amministrazione. I titoli degli ultimi anni parlano da soli: “Nell’ultimo mese sono 47 i morti in Messico a causa delle ribellioni in galera” (IPS, 20 ottobre 2008), “44 morti dopo la rivolta del carcere Apodaca, Nuevo León” (INTV, 20 febbraio 2012), “Strage nella prigione di San Luis Potosí” (CNNMéxico, 27 aprile 2013). Una lista troppo lunga per poterla riprodurre per intero.

Ciò che però più colpisce è che, come quando qualsiasi aberrazione si trasforma in quotidianità, fatte salve le ong che si occupano di detenuti e diritti umani, quasi nessuno in Messico sembra preoccuparsi di un sistema carcerario sovraffollato e corrotto, come l’ultima fuga de “El Chapo” dimostra. Purtroppo la difesa dei diritti dei più deboli, detenuti compresi, in questa parte di Americhe conta meno di zero.

Is Mexico a failed state?” s’interrogava già nel 2008, il settimanale britannico The Economist. Se pensiamo che nel paese ogni anno scompaiono migliaia di persone inghiottite dal vortice di una violenza che, solo negli sei ultimi anni, si è portata via 80mila vite umane, quella domanda oggi appare retorica, almeno in alcune regioni.

Basti pensare ad Apatzingán, una delle città più violente dello stato di Michoacán. “Tierras Calientes” chiamano queste zone dove la temperatura, d’estate, sfiora i 50 gradi e dove, sino a inizio 2014, il cartello della droga dei Cavalieri Templari dominava il territorio a suon di massacri, sequestri e furti. Vista la totale assenza dello stato, qui due anni fa un gruppo di locali decise di far da sé, creando delle discusse “autodifese cittadine”. C’era persino un prete, Padre Goyo, che creò la sua autodifesa, la Ccristos, per combattere i narcos.

Minacciato dal sindaco di Apatzingán perché denunciava i legami tra potere politico, forze di polizia e nuovi gruppi criminali come “Los Viagras”, Papa Francesco lo richiama in Vaticano “per motivi precauzionali”. Il presidente Enrique Peña Nieto manda l’esercito, le autodifese si sciolgono, alcuni loro leader vengono uccisi, altri arrestati, la Ccristos oggi è un’associazione comunitaria che cerca di dare ad un migliaio di giovani un’alternativa al sicariato, il sogno di molti giovani nel Michoacán.

E non va meglio nello Stato di Guerrero, che ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo dopo la scomparsa di 43 studenti il 26 settembre del 2014. Universitari che si stavano recando ad Iguala, una città dove sparizioni, morte ed occultamento di cadaveri in fosse comuni sono purtroppo il pane quotidiano.

Al di là delle polemiche sull’inchiesta, i 43 sono stati quasi certamente tutti uccisi su ordine del sindaco per evitare che rovinassero con le loro proteste un comizio della di lui moglie, soprannominata la “Regina di Iguala” perché gestiva la cassa dei servizi sociali del comune ed era in lizza per prendere il posto del marito. La coppia era affiliata al cartello narcos di Guerreros Unidos ed l’ha usato con la corrotta polizia locale per “risolvere il problema”.

Anche in questa parte di Messico è evidente che polizia, politici locali e boss della droga formano una cupola unica che, da anni, compie sequestri e massacri nella più totale impunità e nell’indifferenza del governo centrale. O, addirittura, con la complicità di esponenti di spicco di quest’ultimo.

Sinora solo i resti di uno dei 43 studenti sono stati identificati ma, proprio mentre si cercavano le ossa dei ragazzi, i medici forensi hanno scoperto in un’altra fossa comune il cadavere di John Ssenyondo, un comboniano ugandese desaparecido da mesi.

Anche della morte dei preti di strada, però, in Messico non ci si deve stupire perché, come spiega padre Alejandro Solalinde, anche lui da tempo minacciato di morte “sono centinaia i sacerdoti che, negli ultimi anni, qui sono stati uccisi, sequestrati, picchiati, ricattati. Prima eravamo ‘intoccabili’ oggi se difendi poveri e innocenti dai narcos finisci subito nelle loro liste della morte”. Anche per denunciare questo Papa Francesco ha scelto il Messico.

di Paolo Manzo

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