Sin dalla sua uscita nelle sale, il film Quo vado?, definito addirittura “una vera e propria lezione di civilizzazione, un potente antidoto all’antipolitica che va più a segno di qualunque sermone filosofico, di politica o di educazione civica, proprio in quanto gentile, leggero e popolare”, ha raccolto unanimi consensi, tanto che si è magari sorriso dei “professionisti del radical-chic”, che ora osannano Checco Zalone, “dopo averlo ignorato o detestato”. Né è mancato l’apprezzamento di un grande Maestro del cinema che avrebbe dichiarato: “Certo. Lo spettacolo che appartiene all’Italia è sempre interessante. Dal neorealismo in poi il cinema si è sempre occupato del nostro Paese e continua a farlo anche attraverso commedie lievi: c’è bisogno di distrazione”, aggiungendo, poiché incalzato, nello specifico, su Checco Zalone, di cui, all’epoca, era nelle sale la prima opera: “Nel suo film si inseriscono temi come omosessualità, razzismo: non è solo evasione”.

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Tutto ciò è francamente imbarazzante, e il primo a rendersene conto è stato proprio Checco Zalone, il quale, consapevole che “Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c’è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l’esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potre(st)i avere manie di onnipotenza”, ha esortato i sia pur numericamente insignificanti dissenzienti: “Continuate ad indignarvi che io sono contento”. In realtà, considerato che, come dimostrano numerosi fatti e decisioni da loro adottate, chi dirige questo Paese, per la maggior parte, non mostra che disprezzo o indifferenza per la cultura e per gli intellettuali, non è temerario il sospetto che la politica abbia cercato di piantare una bandierina in cima a quello che magari per l’industria cinematografica italiana è solo un “mero” dato economico, ma che in termini di comunicazione politica si traduce in qualche milione di spettatori, ovverosia, in una montagna di consenso. E proprio questo sospetto induce a una pacata riflessione, che trascende inesorabilmente il film Quo vado?, ormai puro pretesto, per incentrarsi su quel crimine senza precedenti che si perpetua ogni giorno, quantunque mascherato dal suo stesso baccano, e di cui siamo i testimoni esterrefatti, peggio i complici passivi: la soppressione della cultura.

Per il grande pubblico, la cultura non è più nella scuola né in quelli che un tempo erano considerati i suoi templi e neppure nelle biblioteche o nel cinema. Per la maggioranza dei nostri concittadini, la cultura è, principalmente, la televisione, un medium che non ha coscienza della propria responsabilità né ha a cuore la pedagogia culturale, proponendo, a un tempo, programmi intelligenti e accessibili. La televisione è divenuta, infatti, l’impero della connerie trionfante e fiera di esserlo. Non ci consente più di apprendere chi siamo, né di avvicinarci progressivamente alla bellezza; in essa si va piuttosto per felicitarsi della propria nullità. Salvo qualche eccezione, alla vista delle rare trasmissioni culturali, viene male per quel che propongono. Al pari della maggior parte degli altri media, non è essenzialmente che l’organo dei mercanti e dei finanzieri che la possiedono. E il servizio pubblico si adegua alla demagogia della televisione commerciale.

Sebbene, poi, i media non perdano occasione per ribadire e reclamare la loro libertà, la loro indipendenza, fino ad ostentare ribellione, questa è però soltanto di facciata: essa dissimula un asservimento di fatto, non tanto al potere politico quanto, invece, al vero potere, che è quello delle banche, ma soprattutto, salve talentuose eccezioni, al pensiero dominante. Assai rari sono gli spiriti liberi, che rifuggono dal conformismo, dai clichés, dalla riproposizione di pregiudizi e di ciò che tira sugli altri giornali. Né dai media si riesce mai a cogliere un po’ di realtà, per il linguaggio impiegato, per la tendenza ad offrire al pubblico ciò che si suppone chieda, vale a dire semplicismo e spettacolarità. È ormai chiaro, insomma, che i media ci prendono per imbecilli e, finalmente, a furia di omologare il pensiero, fabbricano una società d’imbecilli.

Nel grande pubblico si è diffusa, inoltre, l’idea che bisognerebbe rispettare tutto, le opere, gli artisti, le religioni, le scelte culturali e via seguitando. Solo il personale politico fa ancora eccezione: lo si deride allegramente e questo dà una sensazione di libertà. In ogni caso, in nome del rispetto universale, ogni presa di posizione critica suscita sospetti: il Paese dell’ironia, della satira, dello spirito burlone, tende a divenire il regno degli adoratori dell’ipse dixit. Il principale risultato è quello di lasciare tutto lo spazio di parola a coloro che detengono una posizione dominante, globalmente o nella loro cerchia sociale, culturale o comunitaria: finanzieri, maestri del prêt-à-penser, potentati letterari, piccoli tiranni religiosi. Breve, quando il dibattito diserta l’area culturale, il pensiero si ferma, ma i mercanti di castronerie si sfregano le mani.

Siamo in guerra. Una guerra che sta per essere vinta da chi fa denaro attraverso l’abbrutimento dei propri concittadini, da chi, per scelta ideologica, ha deciso che la scuola non deve più trasmettere sapere, da chi considera la cultura una spesa inutile. Un paese senza cultura è un paese morto, privato dell’anima, a cui resta solo il denaro come valore. Un mercato di stupidi, oltre tutto, in cui il denaro va sempre agli stessi. In una simile guerra, non serve essere gentili, corretti, rispettosi di tutti. Bisogna lottare, con tutti i mezzi, contro questa nuova tirannia dell’abbrutimento, specialmente quando essa indossa le maschere della virtù, della generosità, della democratizzazione. Usando magari la penna, con la stessa audacia e determinazione con cui, in altri tempi, s’impugnava la spada, contro i falsi valori, le imposture, le mistificazioni.

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