Rigoletto

Del morir cantando Rigoletto rappresenta certamente uno dei momenti più alti di tutta la grande tradizione operistica italiana. Molteplici sono infatti i finali d’opera nei quali l’eroe o l’eroina spirano intonando le loro ultime note, ma la dipartita di Gilda nel Rigoletto di Verdi è talmente intensa, tragica e fondamentalmente ingiusta da lasciare l’amaro in bocca.

Ieri sera, al Teatro dell’Opera di Firenze, ha avuto luogo la prima assoluta di un nuovo Rigoletto, diretto per l’occasione dalla bacchetta di Zubin Mehta. Il pubblico, visibilmente diviso su scenografie e coreografie (che in molti non hanno granché apprezzato), ha però accordato l’unanimità dei consensi allo strepitoso cast vocale: magnifiche sono state infatti le voci di Vladimir Stoyanov (Rigoletto), Julia Novikova (Gilda), Ivan Magrì (Il Duca di Mantova) e Giorgio Giuseppini (Sparafucile), tutti a lungo applauditi tanto in corso d’opera quanto, e soprattutto, al termine della stessa. Ed è così che la prima delle tre opere costituenti la cosiddetta trilogia popolare verdiana (Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata) torna nella città che più di 160 anni or sono lo vide debuttare al Teatro della Pergola, laddove il pubblico e la critica fiorentini si trovarono per la prima volta d’accordo nell’applaudire il genio verdiano.

Rigoletto

Se da una parte infatti, fino ad allora, il grande compositore di Busseto aveva arricchito teatri e impresari mandando in visibilio il pubblico del capoluogo toscano, dall’altra non aveva ancora incontrato i favori di una critica foriera, dal canto suo, di durissime critiche e torbide valutazioni. Ambientazioni ardite quelle che ieri sera hanno ospitato i personaggi verdiani, continuamente circondati da gruppi di donne e demoni danzanti, in un dominante color rosso capace di restituire quella cupezza che prende a braccetto il tema dominante del capolavoro “gobbo” del massimo operista italiano: la vendetta.

Verdi rivive in scene scarne che fanno da contraltare a costumi tanto ricchi quanto accattivanti: la grande creatività, la minuziosa fattura dei vestiti non rischiano di passare in secondo piano dinanzi ai bollenti reggicalze e alle provocanti cosce delle ballerine che accompagnano, a partire dal preludio, tutti i quadri di un Rigoletto a tinte cupe. Un storia, quella di Rigoletto, quantomai attuale e inquadrabile, filosoficamente parlando, come il dramma del consenso, un consenso perseguito, dal protagonista dell’opera verdiana, con ogni mezzo e senza scrupolo alcuno. Rigoletto, pur di compiacere il signore suo, il Duca di Mantova, calpesta spregiudicatamente ogni sentimento altrui, fino a conquistarsi la maledizione del Conte di Monterone.

Una maledizione tanto potente da portarlo, infine, a perdere ciò che di più prezioso ha, quell’amata figlia che assurge, in questo senso, a simbolo di una purezza e di una semplicità sacrificate sull’altare della vanagloria. Una natura, quella originaria dell’essere umano, vituperata e continuamente offesa, corrotta dalle malvagie azioni di quei figuranti che chiamiamo uomini e donne. La bacchetta del direttore scandisce esemplarmente tutti i quadri dell’opera, rendendo fluido e mai compassato il discorso musicale verdiano. Solo alcuni sono i punti che invero avrebbero richiesto maggior piglio e che invece hanno subito una scansione del tempo più ampia del dovuto: uno, esemplificativo, è l’aria di Gilda ‘Caro nome’, che ad ogni modo ha saputo affascinare il pubblico fiorentino grazie alle incredibili doti, alla pulizia e alla brillantezza vocali della Novikova. Le celebri arie, i duetti e i pezzi d’insieme che hanno consacrato quest’opera nelle sale di tutto il mondo si sono susseguiti tra un applauso e l’altro: mirabili, brillanti poi i duetti tra Gilda e Rigoletto, misurati come fossero inestricabilmente uniti in un vero e proprio abbraccio d’amore paterno. Un’opera immortale, un enorme lascito alla grande musica della gloriosa tradizione italiana che torna a emozionare e a far riflettere.

Rigoletto

Foto di Alfredo Falvo

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