FullSizeRenderQuesta settimana in Gran Bretagna si parla molto di #EqualPayDay. In media le donne britanniche guadagnano 85.5 centesimi per ogni sterlina pagata ad un uomo. Il 9 novembre è il giorno in cui questa disparità si concretizza: da questa settimana è come se le donne lavorassero gratis fino alla fine dell’anno.

Stupisce che anche in Uk, culla dei movimenti per il suffragio femminile, le donne, 51% della popolazione, siano soltanto il 30% del Parlamento e il 25% dei giudici. Le ragazze sono il 57% dei laureati, eppure in media una professionista che lavora a tempo pieno guadagnerà nel corso della sua carriera 360.000 sterline meno di un uomo. E forse è anche per questo motivo che a metà ottobre, alla prima di Suffragettesle attiviste di ‘Sisters Uncut’ hanno scavalcato le barriere e, nello spirito del film,  si sono distese davanti all’ingresso del cinema, bloccando il red carpet finché non sono state rimosse di peso dalla polizia. “La battaglia non è ancora finita” era il messaggio delle attiviste, alle quali si sono poi unite le attrici del cast e molti esponenti di spicco del femminismo terza generazione.

Il film racconta i percorsi personali di alcune delle donne che nell’ Inghilterra dei primi ‘900 scelgono di unirsi a Emmeline Pankhurst, co-fondatrice del Women’s Social and Political Union, per promuovere i diritti politici, civili ed economici delle donne. È grazie a Emmeline e alle sue compagne se oggi i diritti politici delle donne sono riconosciuti, almeno sulla carta, praticamente ovunque e le ultime vere e proprie suffragette sono probabilmente le donne Saudite che da agosto 2015 possono finalmente iscriversi nei registri elettorali. Eppure le attiviste che hanno approfittato del red carpet di Suffragettes hanno ragione: c’è ancora tanto da fare perché l’uguaglianza è lontana in molte parti del mondo e anche nelle democrazie avanzate le disparità persistono.

disuguaglianze salario

Nel mondo, la media delle donne in parlamento è il 22%. Si va dal 63% del Ruanda allo 0 di Yemen e Qatar, passando per 31% dell’Italia e il 19% degli Stati Uniti. Per questo è necessario continuare a parlare di quote rosa o di altre iniziative che promuovano la partecipazione delle donne alla vita politica.

Negli Stati Uniti ci sono più amministratori delegati di grandi aziende che si chiamano John che donne che ricoprano lo stesso ruolo. Per questo è necessario che gruppi come il 30% club, che da  questo mese è operativo anche in Italia, continuino a battersi perché il talento femminile venga coltivato dalle aziende e il numero delle donne nei consigli di amministrazione aumenti.

donne aziende usa
“john/women”, Credits: Execucomp / Via nytimes.com

 

La percezione che “la battaglia non sia finita” è palpabile. Dalle campagne governative per la parità al dibattito interno alla chiesa anglicana sulle donne vescovo, dalle start up di successo al femminile ai programmi anti-violenza nei campus universitari: sembra stiamo assistendo alla nascita di qualcosa di nuovo e importante. È il nuovo femminismo, collaborativo e strategico, che è sinonimo di uguaglianza e inclusione .

E chissà cosa avrebbero pensato Emmeline e le altre suffragette se qualcuno avesse detto loro che i loro pronipoti, nel 2015 a Londra, si sarebbero trovati a dover proseguire la battaglie iniziate oltre 120 anni fa, e fondare un partito per la parità, il Women Equality Party.

Il 20 Ottobre, al lancio ufficiale del programma del We Party, ci sono migliaia di donne ma anche molti uomini. Dal palco parlano liceali pragmatiche e nonne agguerrite, neofite e attiviste, e poi padri, fidanzati e figli che si sentono prima di tutto compagni di viaggio. Ci sono gli scettici e i militanti, qualche curioso e moltissimo entusiasmo. L’atmosfera è da festa, l’occasione in realtà è allarmante: le pronipoti delle suffragette sono anche dati di statistiche davvero scoraggianti per un paese G8.

Parlo con una delle fondatrici di We, l’autrice e giornalista angloamericana Catherine Mayer. Catherine mi spiega che anche se esistono già molte iniziative che promuovono la parità, in Uk serviva un vero e proprio partito perché può avere più legittimità nel dibattito pubblico, e potrà essere più efficace nel portare all’attenzione di media, opinione pubblica e leader politici le questioni di parità, spesso trattate in modo sbrigativo da media e parlamento.

We per statuto non è affiliato a partiti politici tradizionali e pur avendo una chiara impronta progressista non si colloca nella classica dicotomia destra/sinistra: si propone di dialogare e collaborare con tutti. WE presenterà candidati alle elezioni locali del 2016, è improbabile che vinca molti seggi, ma è inevitabile che la presenza dei candidati WE alle tribune elettorali spingerà gli altri partiti a sviluppare politiche mirate a tutte le sfumature delle pari opportunità. I fondatori sono chiari: “Qui non si tratta di promuove gli interessi di una piccola minoranza: le donne sono il 51% della popolazione”.

Le racconto dei movimenti “no gender” in Italia ma fatico a spiegarle l’origine e le motivazioni di gruppi come le “sentinelle”. Il concetto di ideologia gender suona ancora più surreale in inglese, visto che la parola gender significa semplicemente genere e in sociologia “Gender role ideology”, si riferisce alla promozione di ruoli tradizionali e predefiniti per uomini e donne. Rinuncio e cerchiamo un corrispettivo che tutte e due conosciamo. Qualche giorno prima del lancio di We, su Twitter imperversa il #worldpatriarchyday , negli Stati Uniti ci sono i “Fedora guys” e le “Mogli Bibliche”, movimenti che spaziano dalla misoginia vera e propria alla valorizzazione di ruoli di genere iper-tradizionali. In Uk ci sono anche le “Donne contro il Femminismo”.

Secondo Catherine l’ondata di anti-femminismo è almeno in parte “una risposta a un movimento per la parità molto più grande di prima. Il principio che la parità benefici tutti,  comunità, economie, governi, è accettata più o meno a livello globale. Questi concetti sono stati rivitalizzati dai movimenti femministi, ma consolidati dall’impegno di istituzioni e imprese a promuovere parità e diritti.”

Le chiedo come mai allora esistono ancora disparità tanto evvidenti. “Abbiamo fatto molta strada ma c’è ancora da fare”. Dice Catherine: “Le ragioni di questo rallentamento sono le stesse che hanno portato ai rigurgiti di anti-femminismo degli ultimi anni. I cambiamenti sociali e tecnologici degli ultimi 10 anni sono stati disorientate per alcuni, incertezza economica e crisi economica stanno in qualche modo erodendo per alcuni certezze e punti di riferimento.”

Secondo Catherine infatti “molti hanno paura, si sentono minacciati da cambiamenti drastici e veloci e per compensare si aggrappano a un ideale nostalgico e idilliaco del passato, Trovano rifugio nella fantasia di un ordine naturale armonioso dove i ruoli di genere sono pre-definiti e tutti sono felici. Ma  quello è un mondo che non è mai davvero esistito.”

Ma se questi movimenti non rappresentano che una minoranza, come mai se ne parla tanto? Catherine crede che siano i media, nuovi e tradizionali a fomentare la narrative anti-femminista esacerbando il conflitto invece che promuovendo il dialogo, fornendo una piattaforma alle posizioni più estreme e presentandole come la norma. Succede negli Stati Uniti e in Uk e probabilmente succede anche in Italia.

Spettacolarizzazione e forzature ideologiche non aiutano, concordiamo sul fatto che la risposta migliore a chi ancora metta in dubbio l’importanza della parità sia quella del nuovo Primo Ministro Canadese Justin Trudeau: a chi gli chiedeva perché tenesse tanto ad avere un governo paritario ha semplicemente risposto “Perché siamo nel 2015!”.

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