Anche l’Italia entra a pieno titolo nel club “meno di zero”. Sono gli Stati che possono offrire sul mercato titoli con rendimenti negativi. Si fanno pagare per farsi prestare soldi. Apparentemente un’assurdità. Che diventa però una situazione più che plausibile in un mondo capovolto come quello plasmato dalle politiche ultra espansive delle grandi banche centrali. In condizioni di mercato normali più è lunga la durata del prestito più gli interessi aumentano, ma oggi Germania, Olanda, Belgio, Austria presentano rendimenti negativi per i titoli con scadenze fino a 5 anni e la Francia per quelli fino a 3 anni. E dalla scorsa settimana anche l’Italia fa pagare i suoi creditori, seppur su scadenze inferiori: Bot a 6 mesi e Ctz a 2 anni. In concreto, chi compra oggi un Bot semestrale di nuova emissione paga un prezzo un po’ più elevato rispetto a quanto gli verrà restituito a fine aprile. La cosa strana è che a comprare sono in tanti. Perché accade?

Cominciamo con il dire che in questi casi a muoversi sono gli investitori istituzionali, in sostanza le banche, che partecipano alle aste del Tesoro. Per ora nei portafogli dei piccoli risparmiatori non ci sono titoli con tassi negativi e difficilmente ci entreranno. Le banche dispongono di molta liquidità a seguito delle ripetute operazioni di finanziamento a tassi vicini allo zero da parte della Bce e grazie agli 80 miliardi di euro in titoli che ogni mese la banca centrale acquista anche da loro con nuova moneta nell’ambito del piano di quantitative easing. In tempi normali le banche avrebbero potuto parcheggiare tutti questi soldi presso la stessa Bce. Per spingerle a finanziare l’economia reale (prestiti alle imprese, mutui eccetera) Mario Draghi ha però deciso di far pagare alle banche interessi dello 0,2% sui soldi che depositano presso l’istituto centrale. A questo punto dunque per una banca che vuole tenere il denaro al sicuro diventa più appetibile comprare titoli come i Bot, su cui andrà a perdere “soltanto” lo 0,02%. E da questo punto di vista i bond italiani risultano più vantaggiosi rispetto a quelli di paesi come Germania o Francia. che hanno tassi ancora più penalizzanti.

C’è di più. Questo ragionamento presuppone che il titolo acquistato venga tenuto in portafoglio fino alla sua scadenza. Ma non è detto che una banca abbia questo obiettivo. Se le prossime emissioni dello stesso tipo di titoli offrissero rendimenti ancora più negativi, il valore dei vecchi titoli salirebbe: infatti se i tassi scendono il valore di un titolo di Stato che ha cedole fisse nel loro ammontare aumenta e viceversa. Rivendendoli sul mercato otterrei quindi un profitto. Ipotesi non impossibile visto che la Bce sembra intenzionata a rafforzate il suo quantitative easing (acquisto di titoli di Stato e societari con nuova moneta) intensificando la pressione al ribasso sui rendimenti. Un ulteriore elemento che entra in gioco sono le attese sull’andamento generale dei prezzi al consumo. Se da qui a due anni mesi mi attendo uno scenario di deflazione con prezzi che scendono, ad esempio, dell’1%, parcheggiare i soldi pagando lo 0,02% mi restituirebbe comunque una somma maggiore di quella iniziale in termini di potere d’acquisto.

Rimane un’altra domanda. Perché, invece di barcamenarsi tra rendimenti da zero virgola, la banche non usano più semplicemente i soldi per i prestiti a imprese e famiglie che sono in teoria molto più profittevoli? Le colpe non stanno da una parte sola. Soprattutto nei Paesi del sud Europa le banche sono zavorrate dai crediti difficili o impossibili da riscuotere: solo in Italia sono 200 miliardi di euro. A fronte dei quali gli istituti devono accantonare soldi per far fronte alle future perdite. E’ poi in atto uno sforzo per mettere i bilanci in linea con i parametri di Basilea 3, le nuove regole di supervisione bancaria diventate più severe dopo la crisi del 2008. Per farlo le banche hanno due strade: o aumentano il loro capitale chiedendo soldi ai loro azionisti e al mercato oppure bloccando l’erogazione di nuovo credito se non addirittura riducendolo. Un processo che è in atto da tempo ma che non può ancora dirsi terminato.

Esiste però una strada più tortuosa attraverso cui gli sforzi dell’Eurotower possono alla fine produrre effetti positivi per l’economia reale. Il fatto che le banche abbiano usato i convenientissimi prestiti della banca centrale per investire in titoli di Stato e lucrare sulla differenza produce ovviamente utili. Profitti che possono essere poi destinati a rafforzare il capitale. Ecco perché Francoforte ha sempre accompagnato le sue politiche espansive con l’invito alle banche a non distribuire dividendi ma a usare i guadagni per diventare più solide ed essere in condizioni di erogare nuovi finanziamenti. Purtroppo una banca centrale non può costringere le banche a prestare soldi. La sua azione funziona molto bene in chiave restrittiva, ma è meno efficace in versione espansiva. Lo spiega bene una metafora secondo cui le banche centrale usano una “corda” con cui è facile tirare ma molto più difficile spingere.

Chi sicuramente in questa situazione ci sguazza sono le casse pubbliche. Lo Stato può prendere a prestito tutti soldi che vuole senza pagare niente. Anzi guadagnandoci, e nel caso italiano guadagnandoci due volte. Non ci sono infatti solo i rendimenti negativi ma anche l’imposta di bollo (2 per mille ogni anno), che in ogni caso viene applicata sul valore dei titoli acquistati poiché riguarda il patrimonio e non i profitti. Vengono invece meno le entrate dell’aliquota sui guadagni, che per i soli titoli di Stato è rimasta al 12,5%. Un aspetto più che compensato dagli altri due fattori. Ogni anno l’Italia paga interessi per circa 80 miliardi di euro. La durata media del nostro debito è di 6 anni e mezzo. Più la situazione attuale si protrae più i vecchi titoli vengono sostituiti da bond con rendimenti inferiori, se non appunto negativi, e il peso degli interessi scende. Difficile quantificare con precisione in quale misura. Bot e Ctz rappresentano una quota piuttosto modesta delle emissioni che per circa il 70% sono costituite da Btp con rendimenti ancora positivi seppur sui minimi storici. Secondo la Corte dei Conti questo comporta che ormai ben il “17% dei titoli in circolazione non comporta costi per le casse dello Stato”. E sempre i magistrati contabili calcolano che nel 2015 si potranno risparmiare “1,5 miliardi” in più rispetto a quanto stimato dal governo nella nota di aggiornamento al Def, quindi in tutto quasi 8 miliardi. E il risparmio “sale a 6,7 miliardi nel 2016 per arrivare a 4,9 nel 2018 e ridursi a 7,6 nel 2019”.

Viceversa a soffrire molto in questa situazione sono fondi e assicurazioni che hanno venduto prodotti con ritorni garantiti. Già la scorsa primavera il Fondo monetario internazionale ha evidenziato come ad essere più in difficoltà siano i settori “life insurance” di Germania e Svezia. In Germania l’interesse garantito ai sottoscrittori supera il 3%, a fronte di un rendimento del titolo decennale tedesco che non arriva allo 0,5%. A livello europeo metà delle assicurazioni vita pagano interessi superiori ai rendimenti dei titoli decennali del paese dove hanno sede. Differenziali che rischiano di affossare anche il sistema pensionistico svizzero. I fondi elvetici sono infatti tenuti a offrire per legge rendimenti garantiti. Uno studio del professore dell’università di St Gallen Martin Eling ha stimato che, con il perdurare delle condizioni attuali, da qui al 2030 i fondi si troverebbero un buco di circa 50 miliardi di euro, frutto della differenza tra gli interessi che sono tenuti a pagare e quelli che riescono ad ottenere sui loro investimenti.

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