Il mio ingresso nel mondo del professionismo tra le fila dei “sofferenti” avvenne poco prima del mio 13º compleanno, quando “decisi” di appendere le gambe al chiodo. Ma come tutti i professionisti anch’io ho fatto la mia gavetta, i miei romantici anni da dilettante, anni sui quali questo post è incentrato.

L’attività dilettantistica la cominciai alla tenera età di due anni, quando ancora mi limitavo a gattonare: «Ho tutto il tempo per camminare», mi dicevo ingenuamente, «tengo quindi fede alla filosofia del “Pigronismo”, perché che senso ha stancarsi inutilmente?». Su questo, infatti, aveva visto giusto quel dottore, la cui attività fu caratterizzata dalla lungimiranza, che scoprì la mia pigrizia, mentre non si rese affatto conto del “talento” ancora inespresso della Francesina (il nome esotico della distrofia muscolare di Duchenne). Così per dispetto al dottore, decisi di dar sfogo ai miei piedi, anche in vista dell’asilo: capì che per fare, appunto, i dispetti e far ricadere la colpa sui miei piccoli “colleghi”, bisognava fuggire a gambe levate. Tuttavia, non sempre riuscivo nell’intento e passavo gran parte del tempo in castigo, tant’è che la maestra un giorno – sottovalutandomi –  mi chiese: «Ma ti piace così tanto stare in castigo?». Lei si aspettava un “no” come risposta, per poi controbattere che se avessi fatto il bravo lei non mi avrebbe mica messo in castigo, invece risposi «sì» e vinsi a mani basse e per ko tecnico (si, anche in castigo mi divertivo).

Dai simpatici dispetti e dai castighi che ne conseguivano, passò qualche anno quando una fisioterapista intuì il talento in me nascosto. E se da cosa nasce cosa, ecco la prova del nove: la biopsia. L’intervento al San Gerardo di Monza, dove quei simpaticoni dei medici per farmi distrarre mi fecero ricoverare nel reparto di neuropsichiatria infantile: compagno di stanza un 17enne un tantino originale, il cui passatempo preferito era quello di alzarsi nel cuore della notte in piedi sul letto, a torso nudo e a mettersi a urlare. «È innocuo», dicevano le infermiere. Sarà, ma fu comunque “un ricovero di ordinaria follia”. In tutto questo, ridendo e scherzando, la fisioterapista fece bingo con la diagnosi: a me, invece, l’onore e l’onere di riscuotere la cospicua e fortunata vincita (perché solo uno su 25mila ce la fa).

E le sue prime conseguenze, dovute alle scarse informazioni che si avevano al riguardo, si fecero sentire: in seconda elementare, infatti, i miei simpatici dispetti divennero più delinquenziali. Come quella volta che, nei due minuti di assenza della maestra, decisi di scagliare più volte contro il muro una mela (ora, dire il perché lo feci è un mistero). Ovviamente quando la maestra tornò ero ancora impegnato nell’“Operazione Mela”, mentre lei non poteva credere ai suoi occhi e andò su tutte le furie: corse verso di me, mi prese per la mano e mi accompagnò fuori dalla classe. Il problema era che lei camminava troppo velocemente per le mie capacità, così le mie gambe dovettero cedere il passo, ma giustamente lei – conoscendo il soggetto – pensava lo stessi facendo di proposito: «Smettila di fare queste scenate», mi disse. E in quel momento pensai: «Come dargli torto? E adesso, come ne esco?». Conscio del fatto che era furiosa e che, in particolar modo in quella circostanza, ero assolutamente poco credibile, decisi di lasciare perdere e subii.

L’anno successivo, però, venne in mio soccorso la Francesina stessa, che in una sola estate mi rese totalmente credibile e addirittura fortunato agli occhi dei miei compagni: «Beato te che non devi fare ginnastica». Infatti, la mia simpatica compagna di vita si attivò definitivamente con l’operazione più nobile, purtroppo senza matti a tenermi compagnia. Cento punti, che tuttora mi consentono di vincere facilmente nelle gare “a punti” sulle operazioni subite. Sì, mi piace vincere, ma per farlo bisogna dire che l’impegno non manca… (nel prossimo post il favoloso mondo del professionismo).

Testo originale già pubblicato su ‘il Cittadino di Monza e Brianza’ nella mia rubrica

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