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Mi vergogno sempre a tornare in Ucraina. Uno dei conflitti peggio raccontati che abbia mai visto. Mi vergogno perché sono venuta qui la prima volta un po’ più di un anno fa, a maggio del 2014. Dopo Maidan. E dopo la Crimea. Iniziavano gli scontri, e tanti dicevano: E’ la nuova Bosnia. L’est contro l’ovest, i cattolici e gli ortodossi. Vedrai, dicevano: Finirà come nei Balcani. E invece la verità, onestamente, è che in quei mesi non c’era altra guerra praticabile: la Siria era inaccessibile per i sequestri, e così la Libia, con le sue mille milizie, l’Isis non aveva ancora fondato il califfato, non c’era l’Iraq, non c’era lo Yemen, e l’Africa, al solito, era troppo costosa. E l’Ucraina, in più, gli europei entrano senza visto, è economica, belle donne, ottimo alcool: ed è anche magnificamente scenografica, per un giornalismo basato ormai sulle immagini – ricordate? Maidan, quelle barricate tra la neve e le fiamme. La nebbia, quel cielo di ferro. Quei colori perfetti. Quando il giornalismo diventa così, che rimane il Guardian, rimangono Le Monde e Spiegel e i pochi soliti, il New York Times, e tutti gli altri, semplicemente, comprano quello che capita da freelance che stanno un po’ dove capita, il risultato è questo: che non si racconta quello che è importante, ma quello che è possibile raccontare.

E della Repubblica Centrafricana, del Sudan, non sa niente nessuno. Perché costa troppo. Mentre l’Ucraina diventa la nuova Bosnia. Perché è facile. Perché siamo tanti. Siamo centinaia. E dobbiamo scrivere un pezzo al giorno. E invece l’Ucraina, in realtà, è insieme scenografica e invisibile. Perché qui è tutto un intreccio di potere e affari. Con questi oligarchi che saranno non più di venti: ma stanno dietro a ogni cosa. La prima volta che ho letto un libro sull’Ucraina, mi è sembrato un film di spionaggio: gente avvelenata, elezioni truccate, auto speronate. Il presidente con i lingotti d’oro nell’armadio. L’Ucraina è una guerra complessa, in cui il soldato in cui ti imbatti, con cui parli, non è che l’ultima pedina di un gioco di mille pedine – è una guerra così complessa, che neppure ci siamo accorti che non era affatto una guerra, ma un’operazione di destabilizzazione voluta da Putin. Ma eravamo tanti, un anno fa, eravamo centinaia, ed eravamo tutti lì, e avevamo un’idea così vaga di quest’Ucraina che qualcuno ha sbagliato aeroporto ed è finito in Moldavia: così un’operazione di destabilizzazione è diventata una guerra civile. Una nuova Bosnia.

Anche perché i tatari in Crimea, no?, sono musulmani. Vedrai: sarà un genocidio. Un anno fa, la città più pericolosa era Slavyansk, ed eravamo tutti di base a Donetsk. Oggi la città più pericolosa è Donetsk, e siamo tutti di base a Slavyansk. E’ l’unica cosa che è cambiata. Slavyansk, ora, è esattamente quella di prima. Non è rimasto niente della guerra. Niente: come se non ci fosse mai stata. Non ho mai visto una guerra più inutile.

E non è un caso, allora, che l’Ucraina sia stata la guerra di Jérôme Sessini, fotografo francese noto per il suo lavoro lungo la frontiera del Messico, Così lontano da Dio, così vicino agli Stati Uniti – e per il suo carattere. Ruvido, scontroso. Introverso. Ferocemente sincero. A me invece Jérôme attrae proprio per questo: perché è selettivo. Ti parla se ha qualcosa da dirti e da sentirsi dire: altrimenti se ne sta solo in un angolo. Ti sceglie. E così le sue foto. Non nel senso, è ovvio, che ogni foto è la scelta di un’inquadratura, mostra e nasconde allo stesso tempo, no: Jérôme non documenta, non testimonia: racconta. Vede, nel significato più pieno del termine. Non sta lì a pretendersi neutrale. Dei fotografi in genere riconosci lo stile: ma solo di pochi, solo di quelli come Jérôme, riconosci lo sguardo. Perché quale che sia la guerra, quale che sia il luogo, Jérôme in realtà sta sempre nello stesso posto: sta tra i perdenti, tra la gente comune che dalla guerra non ha mai ottenuto niente, se non un foro in testa – con questi ritratti di uomini soli tra le macerie, un signore che cammina svelto con la sua sporta della spesa, con la sua vita in mezzo ai cecchini e mortai, i passeggeri del volo della Malaysia Airlines riversi tra l’erba, ancora allacciati ai sedili. Perché la guerra, spesso, è altrove da dove si combatte. E’ in mezzo ai tanti che ti riconoscono, giornalista, e ti fermano, e sono loro, non tu, a fare domande: non capiscono cosa sta succedendo. Questi sunniti, questi sciiti, questi serbi e croati: non capiscono cosa vogliono.

A volte neppure capiscono chi sono.

Quale che sia la guerra, Jérôme è sempre lì: in mezzo ai tanti la cui unica colpa è essersi trovati nel posto sbagliato. Come Natalia Vynokurova, con questa sua camicia a fiori, e gli orecchini, la carta da parati. Le dita sottili. Questa vita come la nostra. E però ora non insegna più pianoforte. Cucina, e vende un po’ di cibo per strada. Adesso Putin ha deciso di intervenire in Siria. E in Ucraina all’improvviso non si spara più. Perché in fondo, Putin ha raggiunto il suo obiettivo, dicono alcuni. Ha impedito che le manifestazioni di Maidan, la richiesta di riforme, di democrazia, dilagassero fino a Mosca, ha impaludato l’Ucraina negli scontri con i separatisti, bloccando il suo ingresso nell’Unione Europea. E magari, nella Nato. No, Putin non ha ottenuto niente, dicono altri. Anzi: l’Ucraina, in reazione a Putin, ha consolidato la sua identità nazionale. Le riforme saranno più rapide, dicono. Più incisive.

Di sicuro qui la guerra, all’improvviso, si è fermata. Quella che era la nuova Bosnia. L’est, l’ovest. L’odio ancestrale. E invece era solo l’Ucraina. Così lontana da Dio, così vicina alla Russia.

foto di Jérôme Sessini

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