Dal 10 giugno 2014, quando ha conquistato Mosul, la seconda città dell’Iraq, lo Stato islamico ha avviato una campagna di terrore fatta di uccisioni sommarie di massa, violenza sessuale, rapimenti e torture soprattutto nei confronti dei musulmani sciiti e delle minoranze etniche e religiose.

Una mappa storica interattiva realizzata da Amnesty International mostra l’orrore che si è propagato in Iraq nell’ultimo anno: crimini efferati commessi dallo Stato islamico e brutali atti di rappresaglia compiuti dalle forze governative e dalle potenti e impunite milizie sciite sostenute dal governo.

Delle nefandezze dello Stato islamico se n’è parlato a lungo, soprattutto la scorsa estate. Meno noti sono i crimini commessi dall’altra parte.

Insieme alla mappa storica interattiva, Amnesty International ha diffuso due documenti relativi ad altrettanti massacri compiuti nel gennaio 2015 in apparente rappresaglia per i crimini dello Stato islamico: l’uccisione di almeno 56 (se non addirittura oltre 70) arabi sunniti nel villaggio di Barwana (provincia di Diyala) da parte di miliziani sciiti e soldati regolari e quella di 21 arabi sunniti nella zona del Sinjar ad opera di una milizia yazida.

Il 26 gennaio 2015 a Barwana, come raccontato ad Amnesty International da decine di donne e ragazze, i loro parenti e vicini di casa maschi sono stati prelevati dalle loro abitazioni e uccisi a sangue freddo dalle milizie sciite e dalle forze governative. I corpi, molti dei quali ammanettati e col volto bendato, sono stati rinvenuti lungo tutto il villaggio. Questa circostanza lascia intendere che si sia trattato di uccisioni sommarie equivalenti a crimini di guerra.

“C’erano corpi ovunque, decine e decine. Alcuni alla discarica, altri in un campo. Non posso dimenticare quello che ho visto: crani spappolati, corpi in posizione contorta, pozze di sangue. Anche i bambini hanno visto tutto questo. I loro pianti mi risuonano ancora nelle orecchie. È stata una cosa inimmaginabile” – ha dichiarato Nadia, che quel giorno ha perso il marito, il figlio e il cognato.

Secondo altri abitanti del villaggio, uomini armati – alcuni dei quali ritenuti affiliati alla milizia Badr, una delle più potenti del paese e protagonista di scontri con lo Stato islamico nella zona di Barwana durati settimane – sono andati di casa in casa, facendone uscire gli uomini ma senza effettuare perquisizioni o fare domande ai parenti. La maggior parte delle persone uccise aveva un’età compresa tra 20 e 40 anni ma altri erano ragazzi e anziani.

Tra le vittime, anche un 17enne e il suo fratello maggiore, di 21 anni, appena diventato padre. Ecco come la loro madre ha descritto l’attacco:

“Sentivo sparare e urlare. Quando è finito, mi sono affacciata e ho visto il corpo del mio ragazzo nella discarica. Aveva un grosso foro sulla fronte e il cervello stava uscendo fuori. Era solo un ragazzino, aveva solo 17 anni”.

Le milizie sciite hanno compiuto attacchi del genere in tutto l’Iraq, rapendo e uccidendo decine di civili sunniti nella totale impunità, a volte addirittura costringendo intere comunità a lasciare le loro zone.

A sei mesi di distanza dall’impegno del primo ministro Haider al-Abadi ad aprire un’indagine sul massacro di Barwana, non vi è alcun segno che siano state prese misure per assicurare i responsabili alla giustizia.

Ma le rappresaglie non sono commesse solo dagli sciiti. Il secondo documento di Amnesty International chiama in causa una milizia yazida che il 25 gennaio 2015 ha attaccato due villaggi arabi, Jiri e Sibaya, ucciso 21 abitanti e bruciato le case dopo averle saccheggiate. Non è stata risparmiata neanche un’abitazione.

Metà delle vittime erano anziani, disabili, donne e bambini. Altre 40 persone sono state rapite e 17 di loro risultano ancora scomparse. Gli abitanti sostengono che alcuni peshmerga (i soldati curdi) e membri dell’Asayish (i servizi di sicurezza del governo regionale del Kurdistan) erano presenti durante gli attacchi ma non hanno fatto nulla per fermarli.

Il padre di due delle vittime di Jiri, un ragazzo di 15 anni e suo fratello di 20 anni, ha raccontato ad Amnesty International che i suoi due figli sono stati uccisi e i loro corpi sono stati sepolti in un villaggio yazida nei pressi. Il più piccolo dei fratelli, di appena 12 anni, è stato colpito da quattro proiettili alla schiena, al petto, a un braccio e a una gamba ma è miracolosamente sopravvissuto.

Nahla, una donna di 34 anni di Jiri, madre di cinque figli, ha descritto come suo marito e suo figlio siano stati uccisi a sangue freddo e come anche il più piccolo dei figli abbia rischiato di morire, quando un proiettile è stato rallentato nell’impatto dalla coperta nella quale lo aveva avvolto tenendolo in braccio.

Nel vicino villaggio di Sibaya molte delle vittime erano anziani e donne e uomini disabili, dunque impossibilitati a fuggire. Sono stati uccisi anche due bambini.

“Non avevamo immaginato che se la sarebbero presa con gli anziani e con i malati, ma è quello che hanno fatto” – ha dichiarato un uomo il cui padre, 66enne, è stato ucciso sulla sua sedia a rotelle.

Niente è così sconfortante come vedere agire in questo modo un gruppo appartenente alla comunità yazida, la principale vittima della campagna di pulizia etnica lanciata dallo Stato islamico fatta di sequestri di massa, di centinaia di uccisioni sommarie di uomini e di rapimenti e riduzione in schiavitù sessuale di donne e ragazze.

Da allora, le autorità del governo regionale del Kurdistan e i peshmerga hanno cercato di tenere separate le comunità yazide e arabe per prevenire futuri attacchi. Ma su quelli di Jiri e Sibaya non pare sia stata svolta alcuna indagine.

In conclusione, l’Iraq di oggi è più frammentato e diviso che mai, con fazioni rivali che si ostinano ad annientarsi senza alcun riguardo per chi non è un combattente o per le popolazioni civili.

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